La nave era inclinata
da una parte, con la poppa a pelo dell’acqua e la prua al cielo, arenata sui
bassi fondali di Corfù dove, miracolosamente, era arrivata dopo aver incassato
un siluro da un incrociatore inglese.
Uomini e mezzi imbarcati
sul “Valfiorita” se l’erano cavata a buon mercato ed a parte alcune leggere
ferite riportate a causa delle schegge e le bruciature sulla pelle provocate
dal cloro dei fumogeni andati a pezzi nello sbandamento, non lamentavano
perdite.
Erano, pertanto,
sbarcati non già sulle coste africane della Libia ove erano diretti, ma su
quell’isola greca presidiata da una compagnia di fanteria della Divisione
“Acqui”, sistemandosi alla meglio nei pressi di Pothamos, un tranquillo
villaggio abitato da pescatori e contadini, sui quali la guerra passava, loro
malgrado, senza riuscire a renderli neppure più poveri.
I cavalleggeri
avevano piantato l’accampamento organizzandosi ed in poco tempo la vita aveva
preso un ritmo ben preciso.
Da due piccole alture
e dal campanile, occhi attenti penetravano tutt’intorno il cielo scrutando il
velo dell’orizzonte, onde prevenire l’offesa nemica resa più probabile dalla
scura sagoma del “Valfiorita” sul cui ponte spiccavano i mezzi da combattimento
ancora perfettamente efficienti.
Piloti ed autisti,
ogni giorno, accostavano al trasporto ferito per preservare quelle macchine dal
salino dell’Adriatico.
Anche i marinai
civili salivano sul carico, tesi com’erano alla riparazione dei danni ed alla
cura dei motori.
Gli altri uomini,
infine, accudivano nell’accampamento alle quotidiane faccende, sempre
l’orecchio vigile, pronti a scattare sulle 20 mm. puntate sull’azzurro del
cielo.
Attorno
all’accampamento ed alle cucine in particolare, sulle prime con timore, aveva
preso ad arrivare un’umanità cenciosa di vecchi e bambini che in comune
mostravano i segni dell’assuefazione ad una miseria senza tempo.
Quei soldati, cui il
fato, pur nella contrarietà degli eventi concedeva un periodo di quiete,
avevano preso a vedere in loro gli affetti lasciati in Patria e divisi da poche
miglia di mare, sicché col tempo ciascuno ebbe il suo “protetto”. Ed infatti,
contrariamente a quello che ci si poteva aspettare, erano i soldati che avevano
adottato una famiglia con la quale dividere il poco di cui disponevano e, nella
quale, ritrovare parte di quelle care abitudini lasciate al di là del canale.
Certo la lingua era
diversa, ma il cielo era lo stesso, così come identici erano i colori e gli
uccelli liberi sopra al mare senza confini.
Fuffo, il botolo
piemontese tutto peli che accompagnava
lo squadrone contraerei, era stato il primo a capire che lì non c’erano
nemici da combattere e, senza diffidenza alcuna, aveva cominciato ad aggirarsi
tra le bianche casupole del villaggio, nasando fra i mucchi e le rovine.
Così il tenente, a cui
il dovere gli aveva fatto raccomandare prudenza e diffidenza, alla fine, s’era
trovato di fronte al fatto compiuto.
A sera, liberi dal
servizio trovavi marinai e cavalleggeri intenti a tessere reti od a dissodare
orti: Antonio si spaccava la schiena per aiutare Leonzio dentro quel pozzo
avaro d’acqua, mentre Pinin, che a casa era muratore, aveva ritrovato secchio e
cazzuola per il tetto del vecchio Theodoro, che aveva l’unico figlio in guerra.
Anche don Filippo, il
cappellano, s’era fatto un amico: Crisostomo, un vecchietto piccolo e curvo,
quattro peli grigi sul mento. Era il Pope del villaggio, quello stesso che
aveva accettato, senza protestare, una vedetta sul suo campanile.
Don Filippo, quasi a
scusarsi della “profanazione” imposta dalla guerra, s’era dato come missione
quella di aiutare il “collega” che, a guardar bene tuttavia, non doveva essere
poi così infelice, confortato com’era dalla presenza di Tisbe, la moglie.
Questa lungi
dall’incarnare la perpetua di manzoniana memoria, era una ragazzona di almeno
trent’anni più giovane del marito che sovrastava di una spanna, bruna e riccia
di capelli, occhi ardenti e neri, carnagione liscia e soda.
Donna sana ed
abituata a vivere all’aperto, mostrava di dominare il grigiore di quell’ometto,
cui evidentemente non era sfuggito l’aspetto pratico di quell’unione.
Il nostro cappellano
giungeva al mattino, insieme col cambio della vedetta, salutava il pope ed
insieme a lui sorbiva una tazza di surrogato, da lui stesso procurato e
preparato dalle leste mani di Tisbe e mentre quella, con premurosa carità
cristiana, andava a servire i soldati
sul campanile, lui si fermava con Crisostomo, raccontando della Patria lontana
e della sua gente, come se quello avesse potuto capirlo.
Il vecchio annuiva,
riponeva le tazze, tirava fuori uno sdrucito messale e cominciava le sue
preghiere in greco. Don Filippo gli andava dietro in latino, ... tanto il
Signore capiva lo stesso.
Poi, all’unisono
smettevano e si salutavano.
La vedetta smontante
e don Filippo facevano ritorno al campo, accompagnati da un canto argentino
che, immancabilmente, s’udiva venire da quelle domestiche mura.
Com’era lontana la
guerra in quei giorni di pur febbrile attività.
A volte era
Crisostomo a giungere all’accampamento, specie il pomeriggio, si sedeva nella
tenda del cappellano biascicando in greco, mentre il sacerdote cattolico sembra
prestargli la massima attenzione.
- Cosa avranno quei
due da dirsi, poi? - brontolava il tenente
rassegnato ormai a vedersi il campo “invaso dai nemici”.
L’importante, però,
era che tutto andasse per il meglio: attacchi non ce n’erano, gli uomini
lavoravano sulla nave e nell’accampamento di buona lena, mentre i turni di
vedetta si succedevano con teutonica regolarità, neanche fossero contesi.
Gli isolani
ricambiavano i nostri con verdura fresca, uova e qualche rara gallina o
coniglio, sicché il suo morale era alto e neppure i periodici rapporti in...
città, presso il comando di compagnia, sembravano deprimerlo.
Un giorno, tuttavia,
di ritorno proprio da uno di questi, trovò il sergente ad attenderlo:
- Carlini e Badialetti
hanno fatto a cazzotti. Colpa del Pope che non gradisce più il latte
condensato, adesso vuole il caffè.
Il tenente non credeva alle sue orecchie, cosa c’entrava il Pope?- Non il Pope, vero e proprio, la moglie del Pope!
- Questa poi, vuoi spiegarti una buona volta?
In quelle giunse don Filippo:
- Ho sentito che parlavate
del Pope, gli é successo qualcosa? - interrogò malcelando una sottile ansia.- Niente, Padre, era un modo di dire, del tipo: “mannaggia al pope... .”
- Non fare il cretino -
s’irritò l’ufficiale - dimmi subito cos’è successo o, quant’è vero Iddio,
scusami don Filippo, ti ficco su quel campanile e ti ci lascio fino alla fine
dei tuoi giorni.
- Magari - si fece
scappare il sergente e poi riprendendosi, - è proprio questo il motivo
del litigio: Tisbe ha detto a Badialetti che, se fosse tornato senza caffè,
poteva fare a meno anche d’andare... .
Il cappellano posava
lo sguardo interrogativo sull’ufficiale ed il suo interlocutore, mentre si
domandava: cosa c’entrava il caffè ed il latte condensato con la santità del
luogo scelto ad osservatorio?
Il tenente
sovrastava, feroce, il giovane sottufficiale che si faceva sempre più piccolo:
cosa c’entra latte e caffè con il servizio di vedetta dal quale poteva
dipendere la loro stessa sopravvivenza?
- Mannaggia al pope, mannaggia a sua moglie - piagnucolò il sergente - io non ce so’ stato..., tutti ce so’ nnati, mannaggia a me, ... ecco cosa
c’entra, mannaggia alla guerra!
Quelle parole
colpirono il sacerdote con l’effetto di uno schiaffo a freddo in pieno viso:
- Cosa vai dicendo,
disgraziato, blasfemo d’un ciociaro rinnegato e senza battesimo? - aveva perso
il senso della misura ed insieme carità e tolleranza. - Tu menti, uomo senza dio,
e non ti vergogni d’infamare un nostro amico, un... un benefattore, un ministro
di Dio, sia pure greco e sposato?
- Senta, Padre, io ci ho il massimo rispetto per Lei e per
i preti come Lei, ma quello s’è pigliato
‘na mignotta, con rispetto parlando, una che jè piace, ma se da per latte, surrogato e tutto l’altro che poi portà... . Anzi, dicono pure,
che poi se lo rivenne...
Quella sera, nella
tenda del tenente don Filippo mostrava i segni della sofferenza; per un momento
aveva creduto in un’isola beata, abitata da gente risparmiata dalle miseria di
quella guerra dissennata che imperversava dappertutto appena al di là del mare.
Un sacro furore lo
scuoteva come una foglia in balìa del vento autunnale, facendogli invocare i
più tremendi castighi infernali per quella fedifraga meretrice insinuatasi
nella casa di Dio, travestita da angelo del focolare.
L’ufficiale, invece,
aveva solo sonno.
La giornata era stata
dura ed aveva dovuto adottare misure restrittive ed impopolari: niente più
civili nel campo, niente più socializzazioni. Le vedette sarebbero state
scortate da un sottufficiale ed ispezionate accuratamente prima, durante e dopo
il servizio.
Tisbe, probabilmente,
sarebbe rimasta senza... clienti, almeno sul campanile, ed i suoi soldati
si sarebbero sentiti un po’ più soli.
La nave riprese il
mare di lì a qualche tempo. I cavalleggeri erano sul ponte, lo sguardo muto,
nella bruma del crepuscolo, fisso su quel misero campanile dove avevano passato
brevi attimi di felicità.
Don Filippo guardava
anche lui in quella direzione e ripensava al suo amico ed alla sua infedele
compagna verso la quale però adesso, e
più razionalmente, nutriva solo un
sentimento di umana pietà .
Il tenente, infine,
fumava in quadrato, arruffando il pelo d’un Fuffo accovacciato sulle sue
ginocchia. Man mano il campanile diventava più piccolo e quel lento dissolversi
che lo riportava alla dura realtà dalla quel era venuto gli insinuò un dubbio:
... e se Crisostomo non fosse stato all’oscuro delle mene dell’intraprendente
Tisbe?
Poi portò lo sguardo
sulla nave, vide Antonio, Pinin, Badialetti, il cappellano..., chissà quale
destino li attendeva.
Allora, con un’alzata
di spalle, cacciò dalla mente Pothamos coi ricordi ad essa legati e perdette lo
sguardo nell’orizzonte, immergendosi in chissà quali più grigi pensieri.
Fuffo levò un lungo ululato nella notte.