sabato 30 giugno 2012

Il Pope

RACCONTI DI GUERRA



La nave era inclinata da una parte, con la poppa a pelo dell’acqua e la prua al cielo, arenata sui bassi fondali di Corfù dove, miracolosamente, era arrivata dopo aver incassato un siluro da un incrociatore inglese.
Uomini e mezzi imbarcati sul “Valfiorita” se l’erano cavata a buon mercato ed a parte alcune leggere ferite riportate a causa delle schegge e le bruciature sulla pelle provocate dal cloro dei fumogeni andati a pezzi nello sbandamento, non lamentavano perdite.

Erano, pertanto, sbarcati non già sulle coste africane della Libia ove erano diretti, ma su quell’isola greca presidiata da una compagnia di fanteria della Divisione “Acqui”, sistemandosi alla meglio nei pressi di Pothamos, un tranquillo villaggio abitato da pescatori e contadini, sui quali la guerra passava, loro malgrado, senza riuscire a renderli neppure più poveri.
I cavalleggeri avevano piantato l’accampamento organizzandosi ed in poco tempo la vita aveva preso un ritmo ben preciso.
Da due piccole alture e dal campanile, occhi attenti penetravano tutt’intorno il cielo scrutando il velo dell’orizzonte, onde prevenire l’offesa nemica resa più probabile dalla scura sagoma del “Valfiorita” sul cui ponte spiccavano i mezzi da combattimento ancora perfettamente efficienti.

Piloti ed autisti, ogni giorno, accostavano al trasporto ferito per preservare quelle macchine dal salino dell’Adriatico.
Anche i marinai civili salivano sul carico, tesi com’erano alla riparazione dei danni ed alla cura dei motori.
Gli altri uomini, infine, accudivano nell’accampamento alle quotidiane faccende, sempre l’orecchio vigile, pronti a scattare sulle 20 mm. puntate sull’azzurro del cielo.

Attorno all’accampamento ed alle cucine in particolare, sulle prime con timore, aveva preso ad arrivare un’umanità cenciosa di vecchi e bambini che in comune mostravano i segni dell’assuefazione ad una miseria senza tempo.
Quei soldati, cui il fato, pur nella contrarietà degli eventi concedeva un periodo di quiete, avevano preso a vedere in loro gli affetti lasciati in Patria e divisi da poche miglia di mare, sicché col tempo ciascuno ebbe il suo “protetto”. Ed infatti, contrariamente a quello che ci si poteva aspettare, erano i soldati che avevano adottato una famiglia con la quale dividere il poco di cui disponevano e, nella quale, ritrovare parte di quelle care abitudini lasciate al di là del canale.
Certo la lingua era diversa, ma il cielo era lo stesso, così come identici erano i colori e gli uccelli liberi sopra al mare senza confini.

Fuffo, il botolo piemontese tutto peli che accompagnava  lo squadrone contraerei, era stato il primo a capire che lì non c’erano nemici da combattere e, senza diffidenza alcuna, aveva cominciato ad aggirarsi tra le bianche casupole del villaggio, nasando fra i mucchi e le rovine.
Così il tenente, a cui il dovere gli aveva fatto raccomandare prudenza e diffidenza, alla fine, s’era trovato di fronte al fatto compiuto.
A sera, liberi dal servizio trovavi marinai e cavalleggeri intenti a tessere reti od a dissodare orti: Antonio si spaccava la schiena per aiutare Leonzio dentro quel pozzo avaro d’acqua, mentre Pinin, che a casa era muratore, aveva ritrovato secchio e cazzuola per il tetto del vecchio Theodoro, che aveva l’unico figlio in guerra.

Anche don Filippo, il cappellano, s’era fatto un amico: Crisostomo, un vecchietto piccolo e curvo, quattro peli grigi sul mento. Era il Pope del villaggio, quello stesso che aveva accettato, senza protestare, una vedetta sul suo campanile.
Don Filippo, quasi a scusarsi della “profanazione” imposta dalla guerra, s’era dato come missione quella di aiutare il “collega” che, a guardar bene tuttavia, non doveva essere poi così infelice, confortato com’era dalla presenza di Tisbe, la moglie.
Questa lungi dall’incarnare la perpetua di manzoniana memoria, era una ragazzona di almeno trent’anni più giovane del marito che sovrastava di una spanna, bruna e riccia di capelli, occhi ardenti e neri, carnagione liscia e soda.
Donna sana ed abituata a vivere all’aperto, mostrava di dominare il grigiore di quell’ometto, cui evidentemente non era sfuggito l’aspetto pratico di quell’unione.

Il nostro cappellano giungeva al mattino, insieme col cambio della vedetta, salutava il pope ed insieme a lui sorbiva una tazza di surrogato, da lui stesso procurato e preparato dalle leste mani di Tisbe e mentre quella, con premurosa carità cristiana, andava a servire i  soldati sul campanile, lui si fermava con Crisostomo, raccontando della Patria lontana e della sua gente, come se quello avesse potuto capirlo.
Il vecchio annuiva, riponeva le tazze, tirava fuori uno sdrucito messale e cominciava le sue preghiere in greco. Don Filippo gli andava dietro in latino, ... tanto il Signore capiva lo stesso.
Poi, all’unisono smettevano e si salutavano.
La vedetta smontante e don Filippo facevano ritorno al campo, accompagnati da un canto argentino che, immancabilmente, s’udiva venire da quelle domestiche mura.
Com’era lontana la guerra in quei giorni di pur febbrile attività.
A volte era Crisostomo a giungere all’accampamento, specie il pomeriggio, si sedeva nella tenda del cappellano biascicando in greco, mentre il sacerdote cattolico sembra prestargli la massima attenzione.
- Cosa avranno quei due da dirsi, poi? - brontolava il tenente  rassegnato ormai a vedersi il campo “invaso dai nemici”.

L’importante, però, era che tutto andasse per il meglio: attacchi non ce n’erano, gli uomini lavoravano sulla nave e nell’accampamento di buona lena, mentre i turni di vedetta si succedevano con teutonica regolarità, neanche fossero contesi.
Gli isolani ricambiavano i nostri con verdura fresca, uova e qualche rara gallina o coniglio, sicché il suo morale era alto e neppure i periodici rapporti in... città, presso il comando di compagnia, sembravano deprimerlo.

Un giorno, tuttavia, di ritorno proprio da uno di questi, trovò il sergente ad attenderlo:
- Carlini e Badialetti hanno fatto a cazzotti. Colpa del Pope che non gradisce più il latte condensato, adesso vuole il caffè.
Il tenente non credeva alle sue orecchie, cosa c’entrava il Pope?
- Non il Pope, vero e proprio, la moglie del Pope!
- Questa poi, vuoi spiegarti una buona volta?

In quelle giunse don Filippo:
- Ho sentito che parlavate del Pope, gli é successo qualcosa? - interrogò malcelando una sottile ansia.
- Niente, Padre, era un modo di dire, del tipo: “mannaggia  al pope... .”
- Non fare il cretino - s’irritò l’ufficiale - dimmi subito cos’è successo o, quant’è vero Iddio, scusami don Filippo, ti ficco su quel campanile e ti ci lascio fino alla fine dei tuoi giorni.
- Magari - si  fece  scappare il sergente e poi riprendendosi, - è proprio questo il motivo del litigio: Tisbe ha detto a Badialetti che, se fosse tornato senza caffè, poteva fare a meno anche d’andare... .

Il cappellano posava lo sguardo interrogativo sull’ufficiale ed il suo interlocutore, mentre si domandava: cosa c’entrava il caffè ed il latte condensato con la santità del luogo scelto ad osservatorio?
Il tenente sovrastava, feroce, il giovane sottufficiale che si faceva sempre più piccolo: cosa c’entra latte e caffè con il servizio di vedetta dal quale poteva dipendere la loro stessa sopravvivenza?

-  Mannaggia  al pope, mannaggia  a sua moglie - piagnucolò il sergente - io non ce so’ stato..., tutti ce so’ nnati, mannaggia  a me, ... ecco cosa c’entra, mannaggia alla guerra!

Quelle parole colpirono il sacerdote con l’effetto di uno schiaffo a freddo in pieno viso:
- Cosa vai dicendo, disgraziato, blasfemo d’un ciociaro rinnegato e senza battesimo? - aveva perso il senso della misura ed insieme carità e tolleranza. - Tu menti, uomo senza dio, e non ti vergogni d’infamare un nostro amico, un... un benefattore, un ministro di Dio, sia pure greco e sposato?
- Senta, Padre, io ci ho il massimo rispetto per Lei e per i preti come Lei, ma quello s’è pigliato ‘na mignotta, con rispetto parlando, una che jè piace, ma se da per latte, surrogato e tutto l’altro che poi portà... . Anzi, dicono pure, che poi se lo rivenne...

Quella sera, nella tenda del tenente don Filippo mostrava i segni della sofferenza; per un momento aveva creduto in un’isola beata, abitata da gente risparmiata dalle miseria di quella guerra dissennata che imperversava dappertutto appena al di là del mare.
Un sacro furore lo scuoteva come una foglia in balìa del vento autunnale, facendogli invocare i più tremendi castighi infernali per quella fedifraga meretrice insinuatasi nella casa di Dio, travestita da angelo del focolare.

L’ufficiale, invece, aveva solo sonno.
La giornata era stata dura ed aveva dovuto adottare misure restrittive ed impopolari: niente più civili nel campo, niente più socializzazioni. Le vedette sarebbero state scortate da un sottufficiale ed ispezionate accuratamente prima, durante e dopo il servizio.
Tisbe, probabilmente, sarebbe rimasta senza... clienti, almeno sul campanile, ed i suoi soldati si sarebbero sentiti un po’ più soli.

La nave riprese il mare di lì a qualche tempo. I cavalleggeri erano sul ponte, lo sguardo muto, nella bruma del crepuscolo, fisso su quel misero campanile dove avevano passato brevi attimi di felicità.
Don Filippo guardava anche lui in quella direzione e ripensava al suo amico ed alla sua infedele compagna  verso la quale però adesso, e più razionalmente,  nutriva solo un sentimento di umana pietà .
Il tenente, infine, fumava in quadrato, arruffando il pelo d’un Fuffo accovacciato sulle sue ginocchia. Man mano il campanile diventava più piccolo e quel lento dissolversi che lo riportava alla dura realtà dalla quel era venuto gli insinuò un dubbio: ... e se Crisostomo non fosse stato all’oscuro delle mene dell’intraprendente Tisbe?
Poi portò lo sguardo sulla nave, vide Antonio, Pinin, Badialetti, il cappellano..., chissà quale destino li attendeva.
Allora, con un’alzata di spalle, cacciò dalla mente Pothamos coi ricordi ad essa legati e perdette lo sguardo nell’orizzonte, immergendosi in chissà quali più grigi pensieri.

Fuffo levò un lungo ululato nella notte.

Andalusia

RACCONTI DI GUERRA




Cara mamma, in questi giorni le vive emozioni ed i grandi avvenimenti in cui, mio malgrado, mi sono trovato coinvolto hanno avuto la meglio perfino sulla magica atmosfera delle festività natalizie, per cui solo adesso il mio pensiero corre a Te che sopra ogni altra amo.

Ormai da due mesi dovrei essere tornato alle mie dolci abitudini, ai miei amici ed ai miei libri, senonché questo inaspettato decreto del Ministro della Guerra, mi ha trattenuto in servizio. Non che io ci stia male, anzi, per molti versi, qui mi sono realizzato e, finalmente, mi sono sentito un uomo. Ti ricordi, mamma, cominciò tutto il giorno che avevano esposto i Quadri degli esami di maturità. Ero corso a casa felice: ero "maturo"!
E Tu mi abbracciasti teneramente: Come sarebbe fiero tuo padre di te oggi... , mi dicesti consegnandomi il suo cronometro in similoro e dal cinturino nuovo di cuoio.
Ero un uomo.

Nel pomeriggio ero uscito a festeggiare con gli amici, con i compagni di scuola, tornando ch'era ormai notte, un po' alticcio, ma col cuore ancor più gonfio d'orgoglio ed una decisione irrevocabile:
- Mamma, vado soldato, ho fatto domanda per allievo ufficiale, è cosa fatta!
Intontito d'orgoglio e sangiovese, non vedevo il Tuo sgomento ed il lieve luccichio che Ti appannava le tenere pupille.

Il periodo d'allievo a Pinerolo era duro, ma mi sorreggeva l'entusiasmo ed il pensiero che proprio di li era passato papà, cui la Patria aveva chiesto l’offerta della vita stessa alla testa dei suoi cavalleggeri in Albania, quando ancora  mi nutrivi nel Tuo ventre.
Ero tornato in "attesa nomina"; non smettevo mai l’uniforme e solo ora mi chiedo quali sacrifici avevi dovuto fare per acquistarmi tutto il corredo. Soltanto i morbidi stivali, che tanto m’inorgoglivano, valevano un patrimonio.

In "Novara", uno dei Reggimenti del Re più gloriosi ed antichi, tutto era bello per me cresciuto nella sonnacchiosa Udine; non che Verona fosse tanto più dinamica, ma qui c’era quel mondo che esaltava i miei vent’anni mal fatti.
Ricordo ancora quella esercitazione in Alto Adige, conclusasi con la grande rivista ed il Generale Guidi che passava davanti ai reparti schierati che intonavano "Iddio salvi il Re e gloria a Te Stendardo..." . Poi il ritorno a Verona, preceduti dalla fanfara del Reggimento su cavalli grigi ed il lacero Stendardo di Pozzuolo del Friuli spiegato al vento fra due ali di folla plaudente.
Che pelle d’oca, quale orgoglio nello sfilare al trotto sotto la cadenza del rullo dei tamburi.

Ma il tempo è passato e fosche nuvole d’odio hanno sostituito i giochi di guerra.
Quella mattina rientravo col mio squadrone dalla solita esercitazione, quando suonò tre volte il gran rapporto. Cento e più ufficiali eravamo davanti al Comandante che parlava di guerra e d’Etiopia, c’era bisogno di subalterni che s’offrissero volontari: quale vanto per il Reggimento se avesse risposto con adeguato slancio ed a rapporto concluso, io mi trattenni con altri, una decina in tutto. Al Comando tappa per l’Africa Orientale Italiana, ci giungemmo alla vigilia di Natale, giusto in tempo per acquistare all’Unione Militare le uniformi coloniali e ricevere l’ordine d’imbarco per il successivo 26 dicembre.

* * *

La nave era il Sardegna cui, però, era stato cancellato il nome a poppa ed i fumaioli, riverniciati di fresco, erano camuffati da finte sovrastrutture che la facevano somigliare a quei grossi vapori del Nord Europa che, da sempre, scaricano merci e passeggeri nei porti del Mediterraneo.
Era buio pesto quando avevo sentito la nave vibrarmi sotto i piedi ed il caratteristico sferragliare delle catene che salpavano le ancore.
Alle luci del mattino ero sul ponte: dapprima con incerto disagio, poi col subitaneo sicuro istinto di chi s’avverte in trappola, scoprivo che navigavamo verso ovest e che quella che intravedevo all’orizzonte era dalla parte sbagliata per essere la Sicilia.

La mia scoperta dissolveva di colpo perfino il mal di mare dei colleghi, precipitatisi in coperta per verificare quanto andavo dicendo mentre, fra una congettura e l’altra, la Sardegna immobile scivolava sulla nostra destra. La tensione, alimentata dal non sapere, cresceva di ora in ora e gli occhi ansiosi scrutavano a 360 gradi l’ormai illuminato orizzonte in cerca d’un indizio, fino a strabuzzare dolorosamente dalle orbite.
- Ecco, laggiù a sinistra, dietro di noi! - Sembra una nave da guerra... .
La sagoma scura di un incrociatore che si faceva sempre più grossa e minacciosa sul nostro destino, finché qualcuno non ne lesse il nome a prua: “Giovanni delle Bande Nere”.
Suonò rapporto ufficiali.

In coperta, affollata di uniformi, c’era un altare.
Un cappellano celebrò la S.Messa al termine della quale un generale, mai visto prima, prese la parola:
- In nome di Sua Maestà, andiamo a presidiare l’Andalusia. Siamo soldati italiani, ma ragioni d’opportunità, impongono che s’adempia al nostro dovere come “volontari”.
Così raccogliemmo le stellette del bavero in elmetti rovesciati e dopo che il cappellano l’ebbe benedette, le buttammo in mare.

Dal Bande Nere, l’equipaggio schierato in coperta, con disciplinate salve di fucileria, rendeva gli onori militari al nostro tricolore che scendeva lentamente mentre, con pari solennità, saliva a rimpiazzarlo il drappo nero dal teschio bianco e la scritta: “Dio lo vuole”, orlato da una frangia ottenuta coi gradi delle nostre uniformi.
Rigido sul saluto, lo sguardo fisso sull’inverosimile vessillo e la bocca spalancata per la sorpresa, non credevo ai miei occhi. Tra l’assurdo ed il grottesco, quella vista  mi riproponeva le fantastiche immagini regalatemi da Emilio Salgari, vate e profeta dei miei adolescenziali sogni d’avventura.

Notte durante, protetta dai cannoni dell’incrociatore, l’oscura sagoma d’una nave fantasma sgusciava, inosservata, attraverso lo stretto di Gibilterra. Cadige era brulicante di vita.
Sbarcammo i mezzi ed organizzata alla meglio una colonna, fummo subito in movimento verso Siviglia, mentre sopra le nostre teste, come in film “Luce”,  caccia Caproni affrontavano una formazione di Curtis francesi, abbattendone due.

Era l’ultimo giorno dell’anno e mi trovavo a capo macchina su un OM carico di uomini che marciavano verso l’ignoto.
Rifletto che non sono neanche passati cinque giorni dacché ho lasciato l’Italia: altro che Africa, solleone, lance e frecce di variopinti guerrieri! Qui è come da noi e la gente, poi, sembra contenta di vederci. Se continua così, torneremo presto a casa e saremo congedati.

Arrivammo a Jerez de la Frontera; la gente lungo la strada ci guarda con simpatia, molti salutano, alcuni gridano: Bienvenido, gracias.
Poi succede qualcosa.
Qualcuno corre verso l’autocarro, salta sul predellino dalla mia parte.
Ha due occhi spaventosi, iniettati d’odio.
Mi punta in faccia un gelido, enorme buco nero.
Avverto un gran urto come se qualcosa di duro mi colpisse con violenza; tutto diventa rosso, le orecchie mi fischiano fino a dolermi, sento una gran confusione.

Volti preoccupati ingigantiscono e rimpiccioliscono attorno a me che giaccio riverso all’indietro. Non sento cosa dicono, anzi non sento più niente.
Ho freddo, anche le ombre si fanno più confuse, mentre un gran gelo comincia a stringermi il petto. Ho paura.
Ora so, come in un incubo, che non ti vedrò mai più e che neppure riuscirò a scriverti questa lettera, ... peccato, avevo tante cose da dirti.

 *  *  * 

In Patria i giornali scrissero: "il 31 dicembre scorso, un giovane ufficiale di cavalleria è caduto ad opera di vile mano assassina, offrendo così la sua vita per la libertà della Spagna e dei popoli tutti d’Europa".

Un comunicato del partito comunista spagnolo, riferendosi allo stesso fatto, così recitava: “Oggi un eroico compagno cadeva linciato sotto i colpi dei falangisti, dopo aver giustiziato un ufficiale nemico che marciava alla testa dei suoi uomini per soffocare  la libertà della Spagna e dei popoli proletari d’Europa tutti”.

Io dico che... in quel lontano fine anno di oltre mezzo secolo fa moriva di morte violenta  un giovane che non aveva ancora conosciuto la vita. Fu tra i primi caduti italiani in quella terra di Spagna, dove in molti caddero da entrambi le parti, spesso senza saperne neppure la ragione.

Il Trombettiere

RACCONTI DI GUERRA

Viaggiando a singhiozzo, la tradotta dai sedili di legno li aveva portati a quella destinazione ignota.
Erano tutti richiamati, presentatisi appena sette giorni prima al Deposito di Cavalleria di Caltanissetta da dove erano ripartiti un afoso pomeriggio di quel lontano settembre 1940.
Solo sul treno avevano avuto modo di contarsi, loro, i Cavalleggeri del 3° Squadrone del neo ricostituito Reggimento “Cavalleggeri di Palermo”.
Avevano viaggiato per ore ed ore, i più, giovani contadini, nel volto i segni dell’angoscia per un futuro incerto e sicuramente ostile; gli altri, quelli più anziani, col pensiero alle famiglie lasciate, alla moglie ed ai figli, forse anche senza mezzi di sostentamento.

Cecè non aveva mai smesso di parlare; poi aveva attaccato bottone con Tonino, l’aiuto cuoco, avevano riso, scherzato e bevuto, finché non era scoppiata una mezza rissa, subito sedata dal provvido intervento di Peppe Alfano, il trombettiere.

Erano circa le 11 del mattino, quando, guardandosi attorno, seppero di essere a Brancaleone, sulla costa ionica della Calabria. E gli uomini non ebbero posa,  presi a sistemarsi sotto la guida dei sottufficiali e del tenente di destra, anch’essi richiamati, cui forse tutto difettava tranne che il buon senso.
Il comandante di squadrone, il tenente Vittorio Mangano (1), era a rapporto chissà dove.

La sera li colse quasi di sorpresa, con la gavetta ancora in mano ed il sapore di scatoletta che cominciava a “ritornare”.
Sul mare che brontolava di risacca sulla vicina spiaggia, il tramonto indorato s’era trasformato in crepuscolo brillante e qualche rara stella già ammiccava alta nel cielo.
Inaspettato si levò lo squillo della tromba.
Piccolo di statura, rigido ed asciutto, Peppe Alfano si stagliava nel riquadro della porta sul luccichio della notte incombente ed il silenzio fuori ordinanza, dalle note chiare e prolungate, andò a toccare il cuore dei soldati, giovani e vecchi e più di uno, con la ruvida mano, scacciò furtivamente una lacrima repentina.

Ai primi raggi del sole, le dolci note della sveglia di cavalleria distolsero quegli uomini  dall’intimità dei loro sogni.
Al fontanile c’era ressa.
- Alfano, vieni con me - ed il tenente, comandante di squadrone, si allontanò seguito da un preoccupato trombettiere, ancora in canottiera ma col suo fedele  strumento a tracolla.
-  Vede, signor tenente, non la lascio mai, è l’unica cosa che posseggo, - cominciò il soldato, tanto per dire qualcosa, mentre dentro si chiedeva con apprensione cosa avesse combinato per essere convocato dal Comandante in persona.
-  A Palermo io mi arrangio, faccio il falegname, il muratore, l’uomo di fatica. Però la domenica no. La domenica è bello perché mi vesto e giro per le strade, sa, tipo dietro San Domenico… -  lei c’è mai stato a Palermo?  - …e suono per i “cristiani”.
- Suono la “qualunque” ed ho pure un pappagallino che “tira” i bigliettini della fortuna.
Per la verità, io non so leggere e non so cosa c’è scritto, ma certe volte, specialmente “i fimmini”, si vede che sono soddisfatte ed allora mi danno di più.
- Certo lei queste cose non le può capire perché lei, con rispetto parlando, si vede subito che è un “signorino”, e che ha studiato; ma noi poveretti dobbiamo “campari”.

Parlava con quella dolce cantilena della Sicilia occidentale, traducendo per diretta assonanza dal dialetto e scegliendo le parole perché fossero acconce al rispetto che meritava il superiore.
L’ufficiale ascoltava in silenzio lo sproloquio del cavalleggero che aveva chiamato per sondarne l’animo e capire chi fosse.
Nel cumulo di responsabilità che gli erano piovute sulle spalle, a lui - richiamato fra richiamati - il pensiero che la vita di tanti uomini sarebbe dipesa dal suo operato, lungi dall’inorgoglirlo, gli faceva sentire il disperato bisogno d’un aiuto qualsiasi.  Doveva, intanto e con urgenza, individuare gli uomini che potevano coadiuvarlo nel comando e sui quali fondare il tramite per il quale legare a sé i cavalleggeri.
E mentre quello parlava, ne metteva a fuoco i tratti: doveva avere quasi trent’anni, qualcuno più di lui quindi, e dal sia pur rozzo suo modo di fare, traspariva quella maturità di carattere frutto di un’atavica capacità di adattamento atta a superare con successo le avverse fortune.
Quel piccoletto tutto nervi e ...lingua, aveva certamente lottato per sopravvivere, come forse la più parte dei suoi uomini, ma la sua intelligenza sembrava averlo messo al riparo dalle miserie in cui spesso si sperdono gli afflitti che così smarriscono, insieme, dignità e rispetto di se stessi.
Proprio quell’intelligenza e quel carattere lo avevano fatto notare dall’ufficiale che, resosi subito conto di quale naturale ascendente quello godesse fra i commilitoni, ora meditava di farne uno strumento nelle sue mani per trasformare quell’improvvisata accozzaglia, in un reparto con un minimo di coesione.

- Se mi permette una confidenza, con rispetto parlando, a me va bene che mi paghino per suonare, ma se la gente sapesse quanto mi piace, risparmierebbe i soldi, ...tanto io suonerei lo stesso.
Parlando avevano fatto il giro attorno alla casa ed adesso dirigevano verso le antiche stalle, ora adattate a cucine, dove  s’era formata una piccola e rumorosa fila di soldati in fila per la colazione.
Il tenente già vestito e gli stivali lucidi, il cavalleggero ancora discinto e gli scarponi slacciati.
- Dimmi, cosa è successo ieri sul treno?
Il piccoletto s’arrestò di colpo e, per una frazione di secondo sembrò irrigidirsi come un gallinaccio che s’appresta al combattimento, quindi il suo volto tornò a rasserenarsi, ma la voce suonava d’una impercettibile inflessione più dura:
- Signor tenente, con rispetto parlando, che mi “pigliò” per spia? Niente “successe”. Solo che non tutti tollerano il vino e non tutti hanno il buon senso di capire che può essere pericoloso fare bere quelli che non lo sopportano. Tutto qui.

All’Ufficiale non era sfuggito il senso della risposta ed in fondo non s’era aspettato nulla di diverso, per cui assumendo un tono più severo:
- Va bene, Alfano, ho capito, chiuso l’incidente. Ora, visto che tu sei il trombettiere, da oggi devi essere la mia ombra, voglio sempre averti a portata di voce.
- Ed un’altra cosa... - aggiunse squadrandolo con malcelato disgusto da capo a piedi - ...non ti fare più vedere da me in queste condizioni, se no ti faccio conoscere io il “signorino”. Ora sparisci! vatti a lavare e vestire. Allacciati le scarpe e soprattutto... fatti la barba.
Un sorriso rischiarò il viso del cavalleggero cui, evidentemente, aggradava l’ordine e con quell’inoffensiva insolenza che gli veniva da generazioni di “servizio”, assunse una rigida posizione d’”attenti”:
- Comandi, signor tenente,  posso allora chiederle subito un piacere? Mi chiami “Peppe” come tutti. Con quell’Alfano,  con rispetto parlando,  mi sembra ...un carabiniere.
E corse via prima che l’ufficiale potesse  riprendersi; ma un’ora dopo, vestito di tutto punto e rasato come un innamorato al primo appuntamento, già lo accompagnava nella sua prima ricognizione: erano otto chilometri di costa da sorvegliare, lungo i quali lo squadrone prese presto posizione in tutta una serie di “fortini”, alcuni di recente costruzione, altri improvvisati o in via d’apprestamento.

Ed il tempo prese a passare.
Alfano e la sua inseparabile tromba accompagnavano ormai il tenente dovunque questi andasse: ispezionavano la costa, visitavano le cucine, lo aspettavano fuori  quando andava a rapporto, e fra i due uomini s’era creata una sorta di complice confidenza fondata sul rispetto dei reciproci ruoli.
Il cavalleggero, dal canto suo, conservava anche la stima dei commilitoni, cosa assai rara  per quei soldati che “stanno vicino al sole”, ma la sua sagacia aveva avuto ragione della loro istintiva diffidenza, mentre con carattere maturo e generoso aveva sempre trovato il modo di mediare i bisogni della truppa con le necessità imposte dalla guerra. Che, in fondo, era proprio ciò a cui pensava il comandante di squadrone  il giorno che, con sicuro intuito, lo aveva avvicinato al fontanile.
Ormai la sera aveva preso a fare freddo e non ci si attardava più all’aperto, per cui il piano terreno della casa di campagna dei principi Ruffo di Calabria, in cui s’era accantonato lo squadrone, era diventato tutt’uno dormitorio ed anche  luogo di ritrovo, dove la truppa attendeva ai propri chiassosi svaghi. Bastava, però,  una nota di Peppe che subito tutti ammutolissero per raccogliersi attorno a lui che improvvisava canzonette, motivi popolari e pezzi classici, mischiati insieme con irrispettosa maestria.
C’erano voluti quasi due mesi  perché, lontani dalle proprie case, in questo angolo d’Italia che per clima e colori ricordava la natia Sicilia, i cavalleggeri si adattassero ai nuovi ritmi imposti dalla guerra. Quegli uomini che il caso aveva riunito sullo stesso treno perché condividessero il medesimo destino, avevano alla fine familiarizzato ed ognuno nell’espletamento del proprio compito, aveva trovato la ragione più immediata del loro stare insieme.

Solo un’ombra sembrava gravare sullo squadrone nel quale Tonino s’era rivelato un alcolizzato senza speranza, un poveretto che, nel corso d’una vita  di stenti, aveva creduto di trovare conforto nel  freddo fondo della bottiglia. Quando ciò accadeva, egli perdeva il controllo delle sue azioni ed insieme ogni dimensione umana. 
Dall’episodio del treno, i commilitoni evitavano accuratamente la sua compagnia e, dopo un paio d’incidenti, anche il tenente aveva dovuto prendere atto che le cucine non erano il posto più adatto per quel poveretto che, alla fine, era stato assegnato al rafforzamento delle fortificazioni.
L’idea era stata di Alfano che aveva così commentato quel movimento:
- Voglio proprio vedere se riesce a scolarsi  pure quella schifezza di cemento che ci passano... .

Tra una guardia, un addestramento ed un’esercitazione dall’allarme, con la primavera arrivò anche il giorno di San Giorgio e, forse fidando su un’improbabile tregua mediata dal Santo a cui anche il nemico era devoto, i Cavalleggeri ne organizzarono la commemorazione.
In ordinato schieramento, volti all’improvvisato altare posto fra loro ed il mare, molti per la prima volta sentirono parlare del martire Patrono della loro Arma. Ed il tenente, pur rifuggendo dalla facile retorica, non mancò d’additarne l’esempio proprio in quei giorni in cui la Patria li chiamava a grandi sacrifici. Cerimonia breve ed essenziale, conclusasi con “la carica”, il beneaugurante brindisi di cavalleria scandito dai tradizionali segnali di tromba eseguiti da un Alfano, più solenne che mai, ed in cui ciascuno brindò nel gavettino.

E, come sovente accade, nell’allegria d’un aperitivo a digiuno, qualcuno immemore delle esperienze passate, lasciò che Tonino “rinnovasse i brindisi”, sicché  presto ne nacque una rissa.
In un cerchio di tesi cavalleggeri, l’ubriaco in preda al panico, lo sguardo vitreo, la bava alla bocca ed  armato di coltello menava  fendenti in tutte le direzioni, lanciando urla disumane e frasi sconnesse.  Di fronte a lui Beppe, le palme aperte protese, gli parlava con tono controllato e suadente:
- Tonino, finiscila, sono io Peppe, lascia il coltello, che niente è successo...
Ed invece, per poco, non ne rimaneva sbudellato.
L’alcolizzato, immobilizzato dai compagni, quella stessa giornata fu ricoverato all’ospedale militare di Catanzaro ed i compagni non lo rividero mai più.

Ma da quel giorno nulla più sembrò andare per il verso giusto: un paio d’avvistamenti avevano fatto salire la tensione ed erano aumentate anche le ispezioni. Anche la posta cominciò a non giungere più con la regolarità di prima, e gli stessi viveri avevano preso inspiegabilmente a scarseggiare.
Gli uomini erano di cattivo umore.

Una notte un sommergibile inglese, con sospetta precisione, affiorò proprio davanti all’accantonamento cannoneggiando il complesso delle costruzioni. I cavalleggeri risposero al fuoco, ma mitragliatrici e moschetti nulla poterono contro il nemico tenutosi abilmente fuori dalla portata delle loro difese.
L’alba rischiarò lo spettacolo desolante delle macerie e dei feriti.
C’era anche un morto.
La sua giovane figura non si sarebbe più stagliata nel sole a scandirne il cammino, né dietro il San Domenico di Palermo passanti d’ogni età, richiamati da una tromba argentina, avrebbero più sperato in una vita migliore promessa dall’innocente becco d’un  pappagallino.
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Nota:
(1) Il tenente Vittorio Mangano, Medaglia d'Argento al Valor Militare con i Cavalleggeri di Lodi, è stato un grande amico dell'autore di questo racconto. In effetti l'episodio, come gli altri che seguiranno con l'intestazione "Racconti di guerra", gli è stato raccontato da lui e l'autore s'è limitato a dargli corpo con nomi di fantasia ed ampliandone l'ambientazione.

venerdì 29 giugno 2012

Insieme in una domenica d'agosto



La signora finalmente era giunta al Posto di controllo ove il Comandante del distaccamento militare l’attendeva impaziente.
Lui, l’ufficiale, era arrivato ai primi d’agosto col suo reparto in quel poligono a nord di Roma e vi aveva impiantato la base per le Unità del Corpo d’Armata che già vi affluivano per le esercitazioni a fuoco.
Oggi, però, domenica - come d’accordo con le popolazioni locali - i cannoni dei carri tacevano, sicché aveva potuto fissare quell’appuntamento proprio lì, all’ingresso di quel suo provvisorio comando, immaginando una giornata speciale.
Sotto lo sguardo professionalmente impassibile del personale di guardia i due s’erano scambiati un lungo abbraccio, poi - quasi senza una parola - s’erano allontanati verso l’autovettura di lei ed avevano preso la strada del mare.

Da un’infinità di tempo l’ufficiale aveva desiderato di stare solo con lei, ché quindici anni e centinaia di chilometri separavano le loro vite. Certo non mancavano d’incontrarsi, quelle due o tre volte l’anno, ma a pensarci bene, forse, non era più capitato di rimanere soli dai tempi in cui lui frequentava il liceo.
Poi era venuto il militare che l’aveva condotto al Nord, quindi la carriera, il matrimonio e la nascita dei figli, avvenimenti ai quali lei aveva sempre preso parte, direttamente o indirettamente, provando di volta in volta emozioni e sentimenti diversi, ma per quelle strane cose naturali della vita, non c’era più stata un’occasione in cui si fossero ritrovati soli.

L’uomo arrestò l’autovettura sull’ampio viale che costeggiava la pineta. La strada appariva deserta, soltanto le voci di alcuni piccoli che si rincorrevano, poco distante, ai primi tepori di un sole stemperato dagli alberi d’alto fusto.
I due presero a camminare a piedi, l’uno accanto all’altra: lei chiedeva, lui rispondeva. Poi lui voleva sapere di lei e la donna si scherniva, quasi fosse più importante compenetrare la vita dell’altro. Avevano molto da dirsi e lo facevano anche senza parlarsi.

Di tanto in tanto la campana della chiesetta, dal fondo del viale, ricordava che era domenica, il giorno del Signore: “Vorrei andare a Messa… - Lei era religiosa e praticante - … ed in verità non farebbe male neanche a te.”
Lui era religioso, ma di quella religiosità naturale, non rivelata: “ Ti accompagno volentieri … .”
Nell’odore acre dell’incenso, tra i banchi allineati gremiti d’ogni età, ognuno corse per i suoi pensieri.
Lei certo pregava; lui godeva  semplicemente di starle accanto e la sua mente andava ai tempi passati, ad antiche tenerezze, ad intime complicità perse nella nebbia del tempo e che mai più sarebbero tornate.

Accompagnata dal festoso scampanio, la folla dei fedeli, sciamando, quasi li trascinò all’aperto ed essi, tornati alla luce del sole, con passo lento si lasciarono guidare dal profumo salino, fino al mare.
Qui, l’aria gioiosa risuonava delle voci dei bagnanti, dei richiami di madri agli irrequieti ragazzini, di spensierate risate di giovani beati delle reciproche fattezze, del tormentone musicale estivo che tutto sovrastava col suo ritmo pseudosudamericano.

Più in là, isolato dal frastuono giocoso, a ridosso di un’improvvisata rimessa per imbarcazioni di piccolo cabotaggio, un ristorantino che ispirava. Così, tra una facezia ed una battuta del simpatico proprietario, nel discreto di una linda saletta refrigerata tutta fenestrata sul mare, i due presero un raffinato pranzo a base di frutti di mare e crostacei accompagnati da un generoso bianco di Sicilia la cui fragranza li rimandava a vent’anni prima quando, ignari di ciò che il futuro loro serbava, vivevano insieme e felici in quell’isola ormai lontana e da tanto creduta dimenticata.
Come sul ponte d’una nave dei sogni, spersi nei colori del cielo e del mare che lontano sembrano confondersi nella luminosità di quella splendida giornata, coscientemente ignari di quanto li circondava, entrambi godevano dell’imprevista occasione che li aveva fatti così ritrovare.
Il loro discorrere, fluido e naturale, non s’era mai interrotto neppure durante i lunghi silenzi nei quali talvolta sembravano perdersi. Forse mai come in quel giorno s’erano sentiti un’anima sola ed avevano preso cognizione della profonda tenerezza dei sentimenti che li univano.

Tornati all’aperto, nel sole fattosi opprimente, la signora cominciava ad accusare la stanchezza.
L’ufficiale guidava sicuro, superando rapidamente i surriscaldati rettifili ormai quasi deserti: “Ti porto da me. Lì potrai distenderti un po’… “.
Il soldato di leva di guardia all’ingresso del campo sollevò, non senza una qualche curiosità, la sbarra bianca e rossa che lo separava dal mondo dei sui affetti lontani: “Beato lui - pensò con una punta d’invidia - che può portare dentro chi gli pare…”.

L’alloggio dell’ufficiale, spoglio e disadorno, conteneva solo l’essenziale: un lettino, un comodino, una piccola scrivania ed una sedia accostata, un basso armadio a due ante contro una parete: “di qua c’è la doccia, se vuoi rinfrescarti”.
Poi le posò un delicato bacio sulla guancia ed uscì nel caldo pomeridiano.
La donna, rimasta sola, dal centro della stanza disadorna dapprima osservò ogni cosa con attenzione girando lentamente lo sguardo sulle bianche pareti e sulle misere suppellettili, quindi aprì l’armadio scorrendo teneramente la mano sulle policrome uniformi e curiosò distrattamente nei fogli sulla scrivania, poi prese a togliersi di dosso i vestiti che ripose ordinatamente su una gruccia. Passò in bagno, usò lo spazzolino dell’uomo e, dopo essersi sommariamente rinfrescata, tornò in camera coricandosi con naturalezza nel lettino e coprendosi fino al mento col lenzuolo.

Nell’assolato cortile dell’accantonamento non si notava anima viva; perfino gli uccelli che popolavano a centinaia i pini marittimi tutt’attorno, sembravano scomparsi quasi fossero stati inghiottiti dall’afa di quel primo pomeriggio. Le unità in addestramento erano state messe in libertà dai rispettivi comandanti che, certamente, non avevano faticato a ritrovare buona parte dei loro uomini su quella splendida spiaggia visitata poche ore prima.
L’ufficiale si avviò, lentamente per non sudare, verso il corpo di guardia scorgendo l’accaldato sottufficiale d’ispezione seduto all’ombra d’un pino.
Accucciato ai suoi piedi il grosso bastardo rizzò le orecchie, richiamandone l’attenzione:
“Comandi, signor maggiore!” - esclamò subito assumendo la corretta posizione d’attenti. Era meglio non rilassarsi mai con quello lì, diceva fra sé, chiedendosi al tempo cosa volesse ora da lui.
“E’ successo qualcosa durante la mia assenza?”
“Assolutamente niente, signor maggiore, nessuna novità da riferire”.
L’ufficiale si diresse verso il suo comando.

Insaccato nella scomoda poltroncina dietro la scrivania del suo ufficio, slacciò la cravatta ed un paio di bottoni dell’uniforme in cerca di quel po’ di sollievo da quell’afa che il cigolante ventilatore sembrava aumentare.
Col pensiero tornò alla donna nel suo alloggio e, preso da nuova tenerezza, chiuse gli occhi ed allargò i grigi baffi in un accenno di sorriso, lasciandosi scivolare in un sonnellino ristoratore.

Ora gli uccelli avevano ripreso a stridere, con quella litigiosa intensità di sempre, traendolo  gradualmente dal profondo vuoto nel quale, caldo e digestione, l’avevano fatto sprofondare per quasi un’ora. Alzatosi, si ricompose: allacciò il colletto, strinse la cravatta, passò due dita lungo la piega dei pantaloni e s’avviò deciso verso il suo alloggio.
Senza bussare, aprì delicatamente la porta avvertendo dall’interno il ritmo d’un respiro leggero e regolare. Entrò ugualmente e, senza far rumore, con infinita attenzione avvicinò la sedia sedendosi  a fianco al letto nel quale la signora, girata sul fianco destro, continuava a riposare rilassata e serena.

La sua mente tornò ad altre veglie: si rivide adolescente costretto a letto da un’inspiegabile febbricola e lei lì, seduta quasi nella sua stessa posizione, lo sguardo colmo d’apprensione. Poi, come quasi sempre nei ragazzi, ogni cosa s’era risolta e lui era tornato a scuola dove, lei vedova, lo manteneva con sacrificio, poiché in quell’unico figlio aveva riposto ogni speranza.
Per lui aveva sognato una fulgida carriera di medico o di magistrato, ma quello - seguendo le orme del padre - alla fine aveva intrapreso la carriera militare.

Gli occhi della donna ora avevano preso a muoversi sotto le palpebre chiuse; certo sognava, chissà cosa.
Le prese la mano di quel braccio scoperto: aveva sempre dormito con un braccio fuori dalle coperte e lui, fin da ragazzo, s’era sempre chiesto come non prendesse freddo in quella posizione.
L’anulare inanellato con la doppia fede, all’uso vedovile d’una volta, gli appariva leggermente gonfio. Sapeva che da qualche tempo aveva preso a patire di qualche acciacco, ma solo adesso si rendeva conto di quanto la cosa lo angosciasse. Il servizio lo tratteneva al Nord e lei, troppo attaccata alla sua casa ed alle sue radici, ostinatamente rifiutava di trasferirsi in una terra a lei estranea per clima e costumi della gente. Troppo avanti nell’età per ricominciare, alle insistenze del figlio opponeva sempre la stessa frase: “Ma si, ma stai tranquillo, io sto bene … .”

Tutto preso da siffatti foschi pensieri, non s’era accorto che la madre aveva aperto gli occhi:
“E’ tanto che sei lì?”
“No, pochi minuti, ma mi piaceva stare qui ad osservarti.”
“S’è fatto tardi. Ho tanta strada da fare…”.
“Certo. Vado a controllare che la macchina sia in ordine. Tu fai pure con comodo.”
La signora partì da lì a poco e l’ufficiale l’accompagnò con lo sguardo, finché la vettura non scomparve dietro la polverosa curva.

Passarono pochi anni e, come aveva presagito quel giorno mentre lei sognava chissà che nel suo lettino di guarnigione, non fu lì quando ebbe bisogno e non le tenne la mano nel momento del fatal trapasso.
Il tempo non sarebbe mai riuscito a lenire quel rimorso, reso ancora più struggente dal tenero ricordo di quell’unica, assolata domenica d’agosto.

giovedì 28 giugno 2012

Gerardo


Dalla finestra del mio ufficio di Comandante lo guardo mentre s’allontana con passo regolare nell’interminabile viale lo mena al congedo.
Lento e sicuro, ne vedo la figura non più snella rimpicciolirsi nella distanza, mentre il mio pensiero va, con affettuosa commozione agli anni trascorsi insieme, ognuno nel suo ruolo, compagni d’armi in una guarnigione che favoriva con lo Spirito di Corpo, quella sincera amicizia che affondava le radici nei duri sacrifici del quotidiano dovere.

Lo rivedo giovane sergente maggiore nella buca del posto manutenzione dell’officina o sotto ad un autocarro all’ombra precaria della grande tenda da campo, mentre io capitano m’affannavo sui carri dei miei esploratori.
Lo ricordo partire per il martoriato Libano, meccanico delle nostre autoblindo delle quali, poi, con una punta di innata quanto involontaria ironia avrà a riferire:
- Ha... ha...hanno più ci... cinghie d’una mo... mo... mototrebbia... .
Sorrido al pensiero di quel suo balbettare che viepiù s’accentuava quando era irritato od imbarazzato, ed in questo mi viene in mente un simpatico aneddoto che lo aveva visto protagonista molti anni prima.

Ero tenente, Aiutante Maggiore del Gruppo Squadroni ed anche Capocalotta e lui, s’era presentato a me - non so bene in quale veste nella circostanza - piuttosto irritato, anzi ad esser precisi era fuori dalla grazia di dio.
- Si... si... signor tee...nente... .
Il sottufficiale a tutti noto per l’altissimo senso della disciplina, sempre moderato nei gesti e nel linguaggio quando si rivolgeva ad un superiore, era rosso in volto e visibilmente agitato.
- Si... signor tenente..., un so... sottotenente piiccolo, bioondo, con gli occhi azzurri e figlio di ...., del quale non fa... faccio il nome, mi ruba le u... uova, ... ed anche i popolli.
Dovete sapere che il nostro abitava con la famiglia all’interno della guarnigione, in un edificio (eufemismo) nel quale con infinita malafede il Genio Militare s’ostinava ad individuare degli alloggi demaniali, nonostante fosse in parte pericolante, impossibile da riscaldare e servito da un’impraticabile strada bianca le cui buche (meglio voragini) si riempivano di terra in estate e d’invischiante fango nelle mezze stagioni.
Poiché uno alla volta i precedenti occupanti erano tutti ormai fuggiti verso più dignitose abitazioni, il Comando aveva individuato negli alloggi colà rimasti vuoti una valida alternativa al  dispendioso albergo da offrire ai sottotenenti di prima nomina.

L’ufficiale al quale si riferiva, inoltre, era di facile individuazione, non tanto per l’apprezzamento all’indirizzo dell’ignara, e certamente virtuosa genitrice, quanto per l’incontestabile evidenza che fosse l’unico subalterno che in quel momento rispondesse esattamente a quella descrizione particolareggiata - ed invero irrispettosa - dell'altrimenti rispettosissimo sottufficiale.

Trattavasi d’un campano già noto al Comando ed alla Calotta per alcuni originali incidenti nei quali era incorso. Egli infatti - rivelandosi d’una spilorceria che l’opinione comune riconduce più ai nati sotto la ligure lanterna - col tempo aveva messo in atto tutta una serie d’iniziative atte a fargli risparmiare fino all’ultimo centesimo del suo stipendio.
Aveva, infatti, preso a disertare la mensa ufficiali (a pagamento), presentandosi puntualmente - mattina e sera - a controllare la qualità del rancio della truppa, ciò almeno finché l’ufficiale al vettovagliamento, individuato lo scroccone, non ebbe ad interdirgli cucine e refettorio.
Negli intervalli tra una lezione e l’altra, poi, ciondolava alla sala convegno truppa sollecitando l’offerta d’un caffè o d’una bibita e, se un incauto cavalleggero gli si fosse avvicinato con l’offerta di qualcosa dopo che quello aveva già consumato, egli accettava prontamente, ordinando al barista di “conservargli la consumazione pagata” per la prossima volta che fosse tornato.
Era perfino stato punito con gli arresti di rigore perché, non contento di risparmiare, aveva aperto un servizio taxi per militari di truppa, laddove con la sua bianca 127 trasportava i cavalleggeri in libera uscita: 500 lire a persona.

- Ma non dire sciocchezze, chi vuoi che ti rubi le uova? E poi lo sanno tutti che qui le volpi scorrazzano a loro piacimento.
- Ce... certo, è ve... ero. Ma le vo...volpi non fanno un buco daa...vanti ed uno di didi...dietro alle uova per su...succhiarle e meno che mamai naa... scondono le penne, dodopo aver mangiato il po...pollo.
Sono passati vent’anni d’allora e sorrido ancora divertito al ricordo dell’episodio.

Ora egli s’è avviato a piedi per quello stesso viale che lo aveva visto arrivare trent’anni prima caporal maggiore neanche ventenne, quando a piedi, zaino sulle spalle e spaurito per l’incognita d’un futuro tutto da vivere, era stato assegnato in questa tremenda guarnigione.

Buona fortuna, Gerardo! Buona fortuna, amico mio.

Sigarette



Una sera d’inverno inoltrato Roccomaria s’accorse d’essere rimasto senza sigarette; disperato s’infilò un paltò ed uscì di casa avventurandosi nella fitta nebbia dalla quale, a stento, filtrava qualche rara luce della pubblica illuminazione.
Giunto davanti alla rivendita, scoprì con disappunto che il negozio ormai era chiuso data l’ora, ma non si perse d’animo: infilato decisamente l’androne accanto, sbucò nel cortile dove s’apriva il retrobottega e picchiò con decisione tre colpi alla porta che rimbombarono per tutto il cortile.
Da dentro la voce spaventata di Agostino, il tabaccaio, domandò tremolante:
- Chi è?
- Carboneria!
- Chiiiii?
- Nel nome di sant’Orsola e sant’Omobono, aprite o sfondo la porta!

Alcuni minuti dopo l’ufficiale tornava ad immergersi nella nebbia, aspirandola a pieni polmoni insieme ad avide boccate della sua sigaretta preferita.

Fantasmi




Nella notte stellata di un precoce autunno, lieve il vento frusciava fra i rami ancora carichi di colorate fronde che, ormai prive di linfa vitale, suonavano d’un delicato crepitio.

Al capannone 4 la sentinella annoiata misurava i passi nell’angusto spazio delimitato in cui lo costringeva la consegna; unica compagnia la scura e possente figura di Nerone, il cane dello squadrone, che come sempre sonnecchiava a ridosso del vicino posto antincendio.
Quello, il cane,  era una sorta d’allarme vivente: avvertiva qualsiasi fruscio rizzando le orecchie e mai a memoria di cavalleggero, una guardia dello squadrone era stata colta di sorpresa da un’ispezione.

Il giovane ufficiale di picchetto che aveva appena effettuato il giro, ora tornava al Corpo di guardia principale ancora intimorito dal ringhio dell’animale che, come ormai noto a tutti - meno che a lui ultimo degli assegnati alla guarnigione - non ammetteva che “estranei” si avvicinassero al cavalleggero in turno di sentinella.
- Quell’animale è pericoloso ... - fremeva stizzito il subalterno strada facendo - il Comandante non dovrebbe permettere la presenza in caserma di simili animali. Ah, ma me la paga, la bestiaccia. Dio, se me la paga!
Il vento sembrava prendere vigore.
L’ufficiale, cresciuto in una località di mare, continuando a rimuginare vendette e rapporti,  istintivamente volse lo sguardo verso le stelle e brontolò:
- Se non altro terrà lontane le nuvole.

Nel chiuso del capannone il cavalleggero si liberò del peso del fucile appoggiandolo contro il cancello dell’armeria, e si stiracchiò distendendo entrambe le braccia per liberarle dal torpore:
- Beato te che te dormi ...
L’animale, quasi a rispondergli, soffiò dal naso sollevando una nuvoletta di polvere dal battuto di cemento che faceva da pavimento all’autorimessa.
- Sbuffa, sbuffa. Tanto a te che te ne frega. E pensare che potrei starmene con gli amici a farmela bene. Ma chi vuoi che se le freghi ‘sti ferri vecchi..., - alludendo ai carri da combattimento custoditi nella rimessa.

Nerone, da anni sentiva frasi simili e lui, da cane serio ed equilibrato qual’era, non finiva di stupirsi di fronte alla monotonia dei discorsi degli uomini.
Mai una volta, nelle lunghe nottate passate insieme ad aspettare qualcosa che non arrivava mai, che parlassero di buoni e gustosi ossi, magari con un po’ di polpa attorno; mai che dicessero delle cagnette del loro paese...
“Che vuoi farci! E’ proprio una vita da cani ...” concludeva fra sé, consapevole di quanto fosse impossibile per lui farsi capire da quegli strani esseri a due zampe privi di qualunque senso logico.

In quello un rumore secco gli fece rizzare l’orecchio “buono”, l’altro sentiva lo stesso, ma da tempo gli pendeva di lato, ricordo d’una baruffa ingaggiata per i favori d’una bastardina, quando ancora non s’era arruolato: “E’ la solita ghianda che cade sull’eternit del tetto... “, sbuffò silenzioso, come se parlasse con la sentinella.
Quella, però, s’era agitata; aveva recuperato in fretta il fucile ed aveva urlato:
- Altolà, chi va là?
“Sta tranquillo, rospa” ...” continuava il cane senza muoversi dal suo angolo.
Ma quello tranquillo non stava, che anzi s’era attaccato al campanello del capoposto_  e non l’ aveva più lasciato finché il graduato non era arrivato:
- Ohé, fuori c’è qualcuno. Ho sentito una botta... della miseria.
- Ne sei sicuro? - dubitò il l’anziano caporale gettando una rapida occhiata a Nerone che se la dormiva beatamente.
- Certo che sono sicuro... - ribatté la sentinella quasi offesa - ti dico che ho sentito perfettamente un colpo di un qualcosa.
- Va bene, non ti scaldare, adesso facciamo un giro di controllo.
Il graduato andò a svegliare un’altra guardia e gli intimò:
- Seguimi, ché dobbiamo fare un’ispezione ...
- oh, no! -  protestò quello rinvenendo da un sonno appena preso - ...possibile che non si riesca a stare un po’ in pace quando s’è in turno di riposo?
- Muoviti! - gli ingiunse il capoposto, quindi  a voce alta chiamò:
- Nerone!
“Ecco, lo sapevo”, grugnì rassegnato l’animale tirandosi su pigramente dal pavimento, “te l’avevo detto di non agitarti. Va be' che sei rospa..., ma a far casino quando non serve ci si rimette il sonno e la tranquillità.”

Fuori dalla rimessa l’aria era più frizzante che mai: il vento da nord soffiava deciso insinuandosi senza pietà sotto le giacche dei due soldati ancora caldi di sonno:
- Mi sono sempre chiesto se i cani hanno freddo ... .
“Certo che ho freddo, e vorrei un po’ più di rispetto. Quando dico che non è niente, vorrei che mi si desse retta.”
- Mi pare strano che tu possa aver sentito qualcosa, senza che Nerone desse l’allarme. - riprese il capoposto avvezzo da più lungo tempo alle guardie.
- Quello se ne frega, - fece la sentinella di rimando - ...lui dorme e voi state lì a trattarlo come un essere umano...
Il cane sembrò emettere un leggero ringhio: “Ehi! ragazzo, porta rispetto ché di pivelli come te ne ho visti a migliaia. Essere umano, poi, sarà tua sorella...”
- Senti, rospa, quando Nerone non dà l’allarme vuol dire che non ci sono problemi di sorta. Osservalo sempre quando sei di sentinella e non te ne pentirai.
L’animale sembrò approvare con la grossa testa pelosa: “Bravo! E’ così che si parla...”

Intanto il giro d'ispezione era terminato. Non s’era visto nessuno, né era stato osservato qualcosa di strano:
- Come volevasi dimostrare... - fece il capoposto.
“Appunto”,  sottolineò Nerone, “speriamo di poter riposare adesso.”
La sentinella mortificata, ma in fondo sollevata, tornò al suo posto.
“Non te la prendere, rospa, capita a tutti. Hai tempo per imparare, ma non darmi più dell’essere umano.” Il cane era tornato a sdraiarsi nella polvere della rimessa.
- Eccolo lì, lui il grande cane che se la dorme!
“Certo che dormo, sei tu di sentinella. Rilassati ora e lasciami in pace.”

Il soldato, neanche l’avesse sentito, in silenzio riprese silenziosamente a misurare a grandi passi il tracciato, quando:
- Alto là! chi va là?
“Ci risiamo”, pensò il cane.
- Alto là! chi va là? Capoposto! Capoposto! Non mi dire che non hai sentito - fece rivolto al cane - ...e tu saresti un allarme vivente? Ma fammi il piacere...
“Allora scocci...”
- Cosa succede stavolta? - chiese il capoposto arrivando trafelato.
- L’ho sentito! L’ho sentito di nuovo ti dico...
- Ma non può essere, il cane è lì tranquillo.
“Era un’altra ghianda sull’eternit del tetto”, biascicò quello senza neppure degnarli d’uno sguardo.
- Giuro che, cane o non cane, ho sentito un altro rumore e stavolta non mi fregate. Chiama l’Ufficiale di picchetto.
- Va bene, calmati, lo chiamo.
“Peggio per te”, pensò Nerone.

L’Ufficiale ordinò un rastrellamento di tutta la zona e così gli uomini della guardia e del picchetto armato passarono la notte in bianco.
Nerone rimase al suo posto vicino al posto antincendio, unico a non perdere il senso della realtà ed a rimanere di guardia a quell’armeria alla quale il suo capitano sembrava tenere tanto.
Sicché l’indomani al compunto ufficiale di picchetto che riferiva le novità della notte al signor colonnello, per poco non prese un colpo allorché questi gli chiese con estrema naturalezza:
- E Nerone? Che faceva lui durante tutto questo agitarsi?
- Se la dormiva, signor colonnello - rimarcò con perfidia il giovane  subalterno.
- Allora avrebbe fatto bene a dormirsela anche lei - concluse il Comandante.
Nerone poco più in là, sembrò scuotere la testa: “... é così fra vecchi soldati”.  E si allontanò col passo indolente di sempre.