Cara
mamma, in questi giorni le vive emozioni ed i grandi avvenimenti in cui, mio
malgrado, mi sono trovato coinvolto hanno avuto la meglio perfino sulla magica
atmosfera delle festività natalizie, per cui solo adesso il mio pensiero corre
a Te che sopra ogni altra amo.
Ormai
da due mesi dovrei essere tornato alle mie dolci abitudini, ai miei amici ed ai
miei libri, senonché questo inaspettato decreto del Ministro della Guerra, mi
ha trattenuto in servizio. Non che io ci stia male, anzi, per molti versi, qui
mi sono realizzato e, finalmente, mi sono sentito un uomo. Ti ricordi, mamma, cominciò
tutto il giorno che avevano esposto i Quadri degli esami di maturità. Ero corso
a casa felice: ero "maturo"!
E
Tu mi abbracciasti teneramente: Come sarebbe fiero tuo padre di te oggi... , mi
dicesti consegnandomi il suo cronometro in similoro e dal cinturino nuovo di
cuoio.
Ero
un uomo.
Nel
pomeriggio ero uscito a festeggiare con gli amici, con i compagni di scuola,
tornando ch'era ormai notte, un po' alticcio, ma col cuore ancor più gonfio
d'orgoglio ed una decisione irrevocabile:
-
Mamma, vado soldato, ho fatto domanda per allievo ufficiale, è cosa fatta!Intontito d'orgoglio e sangiovese, non vedevo il Tuo sgomento ed il lieve luccichio che Ti appannava le tenere pupille.
Il
periodo d'allievo a Pinerolo era duro, ma mi sorreggeva l'entusiasmo ed il
pensiero che proprio di li era passato papà, cui la Patria aveva chiesto
l’offerta della vita stessa alla testa dei suoi cavalleggeri in Albania, quando
ancora mi nutrivi nel Tuo ventre.
Ero
tornato in "attesa nomina"; non smettevo mai l’uniforme e solo ora mi
chiedo quali sacrifici avevi dovuto fare per acquistarmi tutto il corredo. Soltanto
i morbidi stivali, che tanto m’inorgoglivano, valevano un patrimonio.
In
"Novara", uno dei Reggimenti del Re più gloriosi ed antichi, tutto
era bello per me cresciuto nella sonnacchiosa Udine; non che Verona fosse tanto
più dinamica, ma qui c’era quel mondo che esaltava i miei vent’anni mal fatti.
Ricordo
ancora quella esercitazione in Alto Adige, conclusasi con la grande rivista ed
il Generale Guidi che passava davanti ai reparti schierati che intonavano
"Iddio salvi il Re e gloria a Te Stendardo..." . Poi il ritorno a
Verona, preceduti dalla fanfara del Reggimento su cavalli grigi ed il lacero
Stendardo di Pozzuolo del Friuli spiegato al vento fra due ali di folla
plaudente.
Che
pelle d’oca, quale orgoglio nello sfilare al trotto sotto la cadenza del rullo
dei tamburi.Ma il tempo è passato e fosche nuvole d’odio hanno sostituito i giochi di guerra.
Quella
mattina rientravo col mio squadrone dalla solita esercitazione, quando suonò
tre volte il gran rapporto. Cento e più ufficiali eravamo davanti al Comandante
che parlava di guerra e d’Etiopia, c’era bisogno di subalterni che s’offrissero
volontari: quale vanto per il Reggimento se avesse risposto con adeguato
slancio ed a rapporto concluso, io mi trattenni con altri, una decina in tutto.
Al Comando tappa per l’Africa Orientale Italiana, ci giungemmo alla vigilia di
Natale, giusto in tempo per acquistare all’Unione Militare le uniformi
coloniali e ricevere l’ordine d’imbarco per il successivo 26 dicembre.
*
* *
La
nave era il Sardegna cui, però, era stato cancellato il nome a poppa ed i
fumaioli, riverniciati di fresco, erano camuffati da finte sovrastrutture che
la facevano somigliare a quei grossi vapori del Nord Europa che, da sempre,
scaricano merci e passeggeri nei porti del Mediterraneo.
Era
buio pesto quando avevo sentito la nave vibrarmi sotto i piedi ed il caratteristico
sferragliare delle catene che salpavano le ancore. Alle luci del mattino ero sul ponte: dapprima con incerto disagio, poi col subitaneo sicuro istinto di chi s’avverte in trappola, scoprivo che navigavamo verso ovest e che quella che intravedevo all’orizzonte era dalla parte sbagliata per essere
La
mia scoperta dissolveva di colpo perfino il mal di mare dei colleghi,
precipitatisi in coperta per verificare quanto andavo dicendo mentre, fra una
congettura e l’altra, la
Sardegna immobile scivolava sulla nostra destra. La tensione,
alimentata dal non sapere, cresceva di ora in ora e gli occhi ansiosi
scrutavano a 360 gradi l’ormai illuminato orizzonte in cerca d’un indizio, fino
a strabuzzare dolorosamente dalle orbite.
-
Ecco, laggiù a sinistra, dietro di noi! - Sembra una nave da guerra... .
La
sagoma scura di un incrociatore che si faceva sempre più grossa e minacciosa
sul nostro destino, finché qualcuno non ne lesse il nome a prua: “Giovanni
delle Bande Nere”.
Suonò
rapporto ufficiali.
In
coperta, affollata di uniformi, c’era un altare.
Un
cappellano celebrò
-
In nome di Sua Maestà, andiamo a presidiare l’Andalusia. Siamo soldati
italiani, ma ragioni d’opportunità, impongono che s’adempia al nostro dovere come
“volontari”.
Così
raccogliemmo le stellette del bavero in elmetti rovesciati e dopo che il
cappellano l’ebbe benedette, le buttammo in mare.
Dal
Bande Nere, l’equipaggio schierato in coperta, con disciplinate salve di
fucileria, rendeva gli onori militari al nostro tricolore che scendeva lentamente
mentre, con pari solennità, saliva a rimpiazzarlo il drappo nero dal teschio
bianco e la scritta: “Dio lo vuole”, orlato da una frangia ottenuta coi gradi
delle nostre uniformi.
Rigido
sul saluto, lo sguardo fisso sull’inverosimile vessillo e la bocca spalancata
per la sorpresa, non credevo ai miei occhi. Tra l’assurdo ed il grottesco,
quella vista mi riproponeva le
fantastiche immagini regalatemi da Emilio Salgari, vate e profeta dei miei
adolescenziali sogni d’avventura.
Notte
durante, protetta dai cannoni dell’incrociatore, l’oscura sagoma d’una nave
fantasma sgusciava, inosservata, attraverso lo stretto di Gibilterra. Cadige
era brulicante di vita.
Sbarcammo
i mezzi ed organizzata alla meglio una colonna, fummo subito in movimento verso
Siviglia, mentre sopra le nostre teste, come in film “Luce”, caccia Caproni affrontavano una formazione di
Curtis francesi, abbattendone due.
Era
l’ultimo giorno dell’anno e mi trovavo a capo macchina su un OM carico di
uomini che marciavano verso l’ignoto.
Rifletto
che non sono neanche passati cinque giorni dacché ho lasciato l’Italia: altro
che Africa, solleone, lance e frecce di variopinti guerrieri! Qui è come da noi
e la gente, poi, sembra contenta di vederci. Se continua così, torneremo presto
a casa e saremo congedati.
Arrivammo
a Jerez de la Frontera ;
la gente lungo la strada ci guarda con simpatia, molti salutano, alcuni
gridano: Bienvenido, gracias.
Poi
succede qualcosa. Qualcuno corre verso l’autocarro, salta sul predellino dalla mia parte.
Ha due occhi spaventosi, iniettati d’odio.
Mi punta in faccia un gelido, enorme buco nero.
Avverto un gran urto come se qualcosa di duro mi colpisse con violenza; tutto diventa rosso, le orecchie mi fischiano fino a dolermi, sento una gran confusione.
Volti
preoccupati ingigantiscono e rimpiccioliscono attorno a me che giaccio riverso
all’indietro. Non sento cosa dicono, anzi non sento più niente.
Ho
freddo, anche le ombre si fanno più confuse, mentre un gran gelo comincia a
stringermi il petto. Ho paura.
Ora
so, come in un incubo, che non ti vedrò mai più e che neppure riuscirò a
scriverti questa lettera, ... peccato, avevo tante cose da dirti.
In
Patria i giornali scrissero: "il 31 dicembre scorso, un giovane ufficiale di
cavalleria è
caduto ad opera di vile mano assassina, offrendo così la sua vita per la
libertà della Spagna e dei popoli tutti d’Europa".
Un
comunicato del partito comunista spagnolo, riferendosi allo stesso fatto, così
recitava: “Oggi un eroico compagno cadeva linciato sotto i colpi dei
falangisti, dopo aver giustiziato un ufficiale nemico che marciava alla testa
dei suoi uomini per soffocare la libertà
della Spagna e dei popoli proletari d’Europa tutti”.
Io
dico che... in quel lontano fine anno di oltre mezzo secolo fa moriva di morte
violenta un giovane che non aveva ancora
conosciuto la vita. Fu tra i primi caduti italiani in quella terra di Spagna,
dove in molti caddero da entrambi le parti, spesso senza saperne neppure la
ragione.
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