La sala, adattata per
l’occasione, era ingombra di tavolini ben apprestati di piatti, stoviglie e
fiori. Un colpo d’occhio eccezionale dove, fra lo sfavillio delle luci, immote
ed impeccabili spiccavano, nelle loro divise
di camicina bianca e rosso corpetto, le fanciulle della Scuola Alberghiera. Una
per tavolo.
Al mio, la compagnia, piacevole e
ciarliera, riuniva vecchie conoscenze con nuovi amici d’altri Clubs ed il menù
ben piegato davanti a ciascuno di noi prometteva sottili tentazioni ai nostri
palati, rotti ormai ad ogni sorta d’avventura.
Con siffatte premesse facemmo
conoscenza con colei che sola era stata preposta alla nostra cura ed accudisse
a noi, uomini e donne, lì riuniti nel “segno del leone” per una serata che, col
pretesto del carnevale, sciogliesse i cordoni dei ben forniti borselli a favore
di un “service” mondiale.
Era secca ed allampanata, il naso
adunco ed il mento sfuggente. Povera di forme, corpetto e gonna le fluttuavano
intorno di sgraziata sciattoneria, cui nulla avrebbe mai posto rimedio.
E la serata, finalmente ebbe
inizio.
Dopo il tempestivo quanto gradito
giro del sommelier, come ad un cenno d’un invisibile regista, le rosse
fanciulle della citata scuola, tornarono in sala recando inossidabili vassoi.
Anche lei, la preposta, tornò a
noi e nell’apprestarsi a servire il delicato antipasto (“sformato di golosità
dell’orto” ovvero carote, sedano ed altre similari in amalgama d’uovo al vapore
e senza sale) colpì violentemente al cranio un attonito ed occhialuto generale
d’artiglieria in pensione, membro di non so più quale club, seduto all’angolo
estremo del desco.
Benché certamente reduce di ben
altri scontri, l’uomo s’accasciò dolorante, ma presto constatatasi l’assenza di
sangue, nonché l’integrità del manufatto il cui bordo d’acciaio aveva resistito
a tanto impatto e contate le porzioni tutte miracolosamente presenti nel piatto
di portata nonostante la severa prova d’equilibrio, fra risa di circostanza e
lionistici sentimenti, si tornò a
reclamare le golosità promesse dalla lista delle vivande.
Poscia i boccioli di rosa, sorta
di ravioli di magro, punirono duramente la gola, ma forse sarebbe più corretto
dire la manica destra del “vestito buono” di chi scrive, opportunamente
gallonata di besciamella ammannita quale supplemento alla reiterata offerta di
un bis, sfrontatamente accettato.
I molto buoni ravioli di
melanzane fecero invece biblica conoscenza dell’omero, rivestito di morbida ed
impeccabile alpaca blu, d’un noto otorinolaringoiatra.
Questi, giunto inopinatamente
senza consorte, facea da cavaliere alla cinquenne mia figliola, presente alla
serata poiché abitualmente affidata ad una tata, famosa - come il vigile urbano
di buona memoria - per non esserci mai quando ne hai bisogno.
Ed infatti la sua cavalleria,
congiunta alle materne cure, nonché alle mie vigili e paterne apprensioni,
protessero il serico fiocco della piccolina dal trancio di salmone sgusciato
dalla pinza di servizio, con guizzo degno d’altri tempi, quasi fosse ancora
intero e voglioso a risalire gli scogli d’argentei fiumi.
Ma nulla si poté contro il fato
nel cui imperscrutabile disegno stava un babà che, con buona pace dell’estro
napoletano, era stato affogato nello
zabaione.
Serata memorabile quella che, nel
“segno del leone” ci aveva riunito per un “service” mondiale: maschere, musica,
balli ed ...emozioni, nel solco della più pura tradizione.
E poi si sa: ...a Carnevale ogni scherzo vale.
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