“Il Tucul è una capanna,dove
Jambo fa la nanna...”
Dall’allegra tavolata il coro dei
subalterni s’alzava libero e vigoroso in onore degli ufficiali nuovi assegnati.
Questi benché prevenuti per tutte
quelle dicerie sul trattamento loro riservato presso i reggimenti dalle
Calotte, dovevano ricredersi e prendere atto, con vero sollievo, che in quel
reparto non succedeva nulla di tutto ciò che era stato loro paventato presso la
scuola di formazione.
Anzi erano stati accolti con la
massima cordialità e correttezza, e gli anziani avevano addirittura portato
loro le valige in baracca.
Ed ora eccoli lì, in mezzo alla
più bella, goliardica ed allegra Calotta, alle prese con una cena ricca d’ogni
ben di dio, ove il generoso vino rosso scorreva a fiumi per la gioia dei loro
vent’anni mal fatti.
E c’erano proprio tutti: lo
snello Capocalotta assiso sul tronetto, gentile e gioviale padrone di casa, ai
suoi lati i tenenti anziani, com’era giusto ai posti d’onore e c’era perfino il
cappellano, un frate gioviale e disinibito, che sprizzava gioia di vivere ed
allegria da ogni poro dei suoi centotrenta chili.
Sembrava proprio uno di loro,
peccato che qualcuno - prima della cena - avesse alluso a certe, non
comprovate, sue abitudini sessuali non in linea con la sacralità del saio, e
neppure con le regole della più normale eterosessualità.
“Tucul, è un antro nero che si
entra dal didietro...”
Sulle tavole imbandite d’argento
e cristalli, erano state spazzolate leccornie raffinate: antipasti di carne e
di magro, caldi e freddi, risotti e paste ripiene avevano preceduto la
cacciagione incorniciata da “petits pois e pommes de terre”, rigorosamente alla
parigina.
Ed il cappellano era la quarta
volta che s’alzava ad invitare a brindisi collettivi, come se non fossero già
sufficienti quelli individuali.
“Tucul, tucul, tucul, tucul,
tucul...”.
“Questa sì che è vita...”,
apprezzavano i festeggiati che mai s’erano trovati al centro di tante
attenzioni.
- Zanframundo, - tuonò l’elegante
padrone di casa - è ora del battesimo. Portaci lo Chamapgne ... .
- Signor
tenente, è rimasto solo dello champenoise... .
- Eh, no! La circostanza richiede
lo Chamapgne. Non possiamo fare quest’affronto ai nostri amici. Cosa vogliamo che pensino di noi.
Mai quegli ufficialetti avrebbero
solo sognato tanto, e poi forse adesso esageravano, champagne o champenoise,
sempre battesimo era. Perché guastarsi la serata?
Fra’ Rocco, il cappellano,
propose:
- Andiamo
tutti ai “Marmi; l’ultima macchina che arriva, offre champagne a tutti!
- Fantastico,
bell’idea... .
- Ma
io non ho la macchina - protestò col Cappellano il pivello che gli sedeva
accanto.
- Niente
paura! Ti ci porto io. Conosco pure una scorciatoia e li freghiamo tutti.
Il giovane guardò il cappellano
con un misto di perplessità ed ammirazione.
Altro che finocchio - pensò tra
sé - questo è il più dritto di tutti.
Ancora un brindisi e poi fu una
volata: come avesse avuto il fuoco alle calcagna, l’allegra brigata,
spintonando e sgomitando, guadagnò la porta.
Fra’ Rocco, col saio a metà dei
nudi polpacci, correva più degli altri; il nuovo amico lo seguiva con rinnovato
entusiasmo.
Nella notte ormai avanzata che
avvolgeva la guarnigione, lo sgommare delle ruote lacerò paurosamente le
tenebre, voci eccitate e clacson si rincorsero tra un luccichio di stop,
svoltando tutti a destra.
Fra’ Rocco a sinistra.
- Ma
... .
- Non
ti preoccupare. E’ la scorciatoia.
L’auto col reverendo alla guida e
l’elegante ufficialetto a lato, imboccò una strada bianca, in quel che a prima
vista sembrava un boschetto, slittando un po’ sul fondo battuto reso viscido
dall’umidità notturna.
Il pivello, viepiù eccitato,
controllò l’orologio dell’autovettura:
- Quanto
ci vorrà ... .
- Poco
- fece il frate in tono promettente - ancora un poco e poi ... ne vedrai delle
belle.
- Grande!
- ribatté l’ufficiale - Che mangiata, ragazzi. Se la naia è così, giuro che
metto firma.
L’auto procedeva spedita: dal
folto degli alberi filtrava appena qualche rara stella e lo spettacolo della
notte conciliava l’anima con la natura.
Il giovane si rilassò un attimo;
una certa stanchezza sembrava subentrare in lui che, già provato dal faticoso
viaggio in treno del giorno prima, aveva ora anche esagerato col vino e la forchetta.
Il riscaldamento dell’autovettura
fece il resto: chiuse gli occhi, cedendo alla stanchezza.
Poi qualcosa di strano lo trasse
repentinamente dal torpore: erano arrivati! “Oddio lo Champagne ...” .
La testa sembrava spaccarsi,
tanto gli martellavano le tempie; volse lo sguardo in cerca del locale: niente.
Solo alberi:
- Ma
che succede?
- Nulla,
caro. - Il frate, proteso su di lui, lo fissava sorridendo dal suo posto di
guida.
- Diciamo
che ci siamo persi - aggiunse melodioso, sfiorandogli con mano decisa un
bottone dorato dell’uniforme - … tanto vale ingannare piacevolmente l’attesa
del giorno.
Il giovane guardava il frate - il
saio tirato sulle ginocchia - con indicibile orrore: “allora erano vere le
chiacchiere. Proprio a lui doveva capitare?”
- Nooo!
L’urlo sembrò risuonare per
chilometri nel bosco, lacrimoso, implorante, impetrante, mentre invano le sue
mani correvano all’affannosa ricerca della maniglia, manigoldamente asportata in
precedenza.
- Sii
buono, caro, comportati da uomo...
- Appunto!
Aiutooo ...
Le urla cominciavano ad offendere
i timpani del santo uomo (si fa per dire) e quello, che santo non era e che
infondo teneva a quel poco di salute che gli restava:
- Aiuto!
- cominciò ad urlare lui stesso, intrecciando le sue invocazioni a quelle del
giovane, sicché sarebbe stato ben arduo per un osservatore, che fosse solo in
quel momento sopraggiunto, distinguere la vittima dal carnefice.
In quello i fari di una ventina
d’auto illuminarono a giorno la radura.
Le risate per la burla ben
riuscita si fusero alle incessanti invocazioni d’aiuto del neo subalterno che,
ancor più frastornato, sembrava ormai in preda ad una vera e propria crisi di
nervi.
Roccomaria si tolse il saio e
tentò di presentarsi nella sua vera veste di Capocalotta.
Ma quello aveva già giurato che mai più si sarebbe fidato d’un prete,
men che mai se... falso.
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