sabato 30 giugno 2012

Il Pope

RACCONTI DI GUERRA



La nave era inclinata da una parte, con la poppa a pelo dell’acqua e la prua al cielo, arenata sui bassi fondali di Corfù dove, miracolosamente, era arrivata dopo aver incassato un siluro da un incrociatore inglese.
Uomini e mezzi imbarcati sul “Valfiorita” se l’erano cavata a buon mercato ed a parte alcune leggere ferite riportate a causa delle schegge e le bruciature sulla pelle provocate dal cloro dei fumogeni andati a pezzi nello sbandamento, non lamentavano perdite.

Erano, pertanto, sbarcati non già sulle coste africane della Libia ove erano diretti, ma su quell’isola greca presidiata da una compagnia di fanteria della Divisione “Acqui”, sistemandosi alla meglio nei pressi di Pothamos, un tranquillo villaggio abitato da pescatori e contadini, sui quali la guerra passava, loro malgrado, senza riuscire a renderli neppure più poveri.
I cavalleggeri avevano piantato l’accampamento organizzandosi ed in poco tempo la vita aveva preso un ritmo ben preciso.
Da due piccole alture e dal campanile, occhi attenti penetravano tutt’intorno il cielo scrutando il velo dell’orizzonte, onde prevenire l’offesa nemica resa più probabile dalla scura sagoma del “Valfiorita” sul cui ponte spiccavano i mezzi da combattimento ancora perfettamente efficienti.

Piloti ed autisti, ogni giorno, accostavano al trasporto ferito per preservare quelle macchine dal salino dell’Adriatico.
Anche i marinai civili salivano sul carico, tesi com’erano alla riparazione dei danni ed alla cura dei motori.
Gli altri uomini, infine, accudivano nell’accampamento alle quotidiane faccende, sempre l’orecchio vigile, pronti a scattare sulle 20 mm. puntate sull’azzurro del cielo.

Attorno all’accampamento ed alle cucine in particolare, sulle prime con timore, aveva preso ad arrivare un’umanità cenciosa di vecchi e bambini che in comune mostravano i segni dell’assuefazione ad una miseria senza tempo.
Quei soldati, cui il fato, pur nella contrarietà degli eventi concedeva un periodo di quiete, avevano preso a vedere in loro gli affetti lasciati in Patria e divisi da poche miglia di mare, sicché col tempo ciascuno ebbe il suo “protetto”. Ed infatti, contrariamente a quello che ci si poteva aspettare, erano i soldati che avevano adottato una famiglia con la quale dividere il poco di cui disponevano e, nella quale, ritrovare parte di quelle care abitudini lasciate al di là del canale.
Certo la lingua era diversa, ma il cielo era lo stesso, così come identici erano i colori e gli uccelli liberi sopra al mare senza confini.

Fuffo, il botolo piemontese tutto peli che accompagnava  lo squadrone contraerei, era stato il primo a capire che lì non c’erano nemici da combattere e, senza diffidenza alcuna, aveva cominciato ad aggirarsi tra le bianche casupole del villaggio, nasando fra i mucchi e le rovine.
Così il tenente, a cui il dovere gli aveva fatto raccomandare prudenza e diffidenza, alla fine, s’era trovato di fronte al fatto compiuto.
A sera, liberi dal servizio trovavi marinai e cavalleggeri intenti a tessere reti od a dissodare orti: Antonio si spaccava la schiena per aiutare Leonzio dentro quel pozzo avaro d’acqua, mentre Pinin, che a casa era muratore, aveva ritrovato secchio e cazzuola per il tetto del vecchio Theodoro, che aveva l’unico figlio in guerra.

Anche don Filippo, il cappellano, s’era fatto un amico: Crisostomo, un vecchietto piccolo e curvo, quattro peli grigi sul mento. Era il Pope del villaggio, quello stesso che aveva accettato, senza protestare, una vedetta sul suo campanile.
Don Filippo, quasi a scusarsi della “profanazione” imposta dalla guerra, s’era dato come missione quella di aiutare il “collega” che, a guardar bene tuttavia, non doveva essere poi così infelice, confortato com’era dalla presenza di Tisbe, la moglie.
Questa lungi dall’incarnare la perpetua di manzoniana memoria, era una ragazzona di almeno trent’anni più giovane del marito che sovrastava di una spanna, bruna e riccia di capelli, occhi ardenti e neri, carnagione liscia e soda.
Donna sana ed abituata a vivere all’aperto, mostrava di dominare il grigiore di quell’ometto, cui evidentemente non era sfuggito l’aspetto pratico di quell’unione.

Il nostro cappellano giungeva al mattino, insieme col cambio della vedetta, salutava il pope ed insieme a lui sorbiva una tazza di surrogato, da lui stesso procurato e preparato dalle leste mani di Tisbe e mentre quella, con premurosa carità cristiana, andava a servire i  soldati sul campanile, lui si fermava con Crisostomo, raccontando della Patria lontana e della sua gente, come se quello avesse potuto capirlo.
Il vecchio annuiva, riponeva le tazze, tirava fuori uno sdrucito messale e cominciava le sue preghiere in greco. Don Filippo gli andava dietro in latino, ... tanto il Signore capiva lo stesso.
Poi, all’unisono smettevano e si salutavano.
La vedetta smontante e don Filippo facevano ritorno al campo, accompagnati da un canto argentino che, immancabilmente, s’udiva venire da quelle domestiche mura.
Com’era lontana la guerra in quei giorni di pur febbrile attività.
A volte era Crisostomo a giungere all’accampamento, specie il pomeriggio, si sedeva nella tenda del cappellano biascicando in greco, mentre il sacerdote cattolico sembra prestargli la massima attenzione.
- Cosa avranno quei due da dirsi, poi? - brontolava il tenente  rassegnato ormai a vedersi il campo “invaso dai nemici”.

L’importante, però, era che tutto andasse per il meglio: attacchi non ce n’erano, gli uomini lavoravano sulla nave e nell’accampamento di buona lena, mentre i turni di vedetta si succedevano con teutonica regolarità, neanche fossero contesi.
Gli isolani ricambiavano i nostri con verdura fresca, uova e qualche rara gallina o coniglio, sicché il suo morale era alto e neppure i periodici rapporti in... città, presso il comando di compagnia, sembravano deprimerlo.

Un giorno, tuttavia, di ritorno proprio da uno di questi, trovò il sergente ad attenderlo:
- Carlini e Badialetti hanno fatto a cazzotti. Colpa del Pope che non gradisce più il latte condensato, adesso vuole il caffè.
Il tenente non credeva alle sue orecchie, cosa c’entrava il Pope?
- Non il Pope, vero e proprio, la moglie del Pope!
- Questa poi, vuoi spiegarti una buona volta?

In quelle giunse don Filippo:
- Ho sentito che parlavate del Pope, gli é successo qualcosa? - interrogò malcelando una sottile ansia.
- Niente, Padre, era un modo di dire, del tipo: “mannaggia  al pope... .”
- Non fare il cretino - s’irritò l’ufficiale - dimmi subito cos’è successo o, quant’è vero Iddio, scusami don Filippo, ti ficco su quel campanile e ti ci lascio fino alla fine dei tuoi giorni.
- Magari - si  fece  scappare il sergente e poi riprendendosi, - è proprio questo il motivo del litigio: Tisbe ha detto a Badialetti che, se fosse tornato senza caffè, poteva fare a meno anche d’andare... .

Il cappellano posava lo sguardo interrogativo sull’ufficiale ed il suo interlocutore, mentre si domandava: cosa c’entrava il caffè ed il latte condensato con la santità del luogo scelto ad osservatorio?
Il tenente sovrastava, feroce, il giovane sottufficiale che si faceva sempre più piccolo: cosa c’entra latte e caffè con il servizio di vedetta dal quale poteva dipendere la loro stessa sopravvivenza?

-  Mannaggia  al pope, mannaggia  a sua moglie - piagnucolò il sergente - io non ce so’ stato..., tutti ce so’ nnati, mannaggia  a me, ... ecco cosa c’entra, mannaggia alla guerra!

Quelle parole colpirono il sacerdote con l’effetto di uno schiaffo a freddo in pieno viso:
- Cosa vai dicendo, disgraziato, blasfemo d’un ciociaro rinnegato e senza battesimo? - aveva perso il senso della misura ed insieme carità e tolleranza. - Tu menti, uomo senza dio, e non ti vergogni d’infamare un nostro amico, un... un benefattore, un ministro di Dio, sia pure greco e sposato?
- Senta, Padre, io ci ho il massimo rispetto per Lei e per i preti come Lei, ma quello s’è pigliato ‘na mignotta, con rispetto parlando, una che jè piace, ma se da per latte, surrogato e tutto l’altro che poi portà... . Anzi, dicono pure, che poi se lo rivenne...

Quella sera, nella tenda del tenente don Filippo mostrava i segni della sofferenza; per un momento aveva creduto in un’isola beata, abitata da gente risparmiata dalle miseria di quella guerra dissennata che imperversava dappertutto appena al di là del mare.
Un sacro furore lo scuoteva come una foglia in balìa del vento autunnale, facendogli invocare i più tremendi castighi infernali per quella fedifraga meretrice insinuatasi nella casa di Dio, travestita da angelo del focolare.

L’ufficiale, invece, aveva solo sonno.
La giornata era stata dura ed aveva dovuto adottare misure restrittive ed impopolari: niente più civili nel campo, niente più socializzazioni. Le vedette sarebbero state scortate da un sottufficiale ed ispezionate accuratamente prima, durante e dopo il servizio.
Tisbe, probabilmente, sarebbe rimasta senza... clienti, almeno sul campanile, ed i suoi soldati si sarebbero sentiti un po’ più soli.

La nave riprese il mare di lì a qualche tempo. I cavalleggeri erano sul ponte, lo sguardo muto, nella bruma del crepuscolo, fisso su quel misero campanile dove avevano passato brevi attimi di felicità.
Don Filippo guardava anche lui in quella direzione e ripensava al suo amico ed alla sua infedele compagna  verso la quale però adesso, e più razionalmente,  nutriva solo un sentimento di umana pietà .
Il tenente, infine, fumava in quadrato, arruffando il pelo d’un Fuffo accovacciato sulle sue ginocchia. Man mano il campanile diventava più piccolo e quel lento dissolversi che lo riportava alla dura realtà dalla quel era venuto gli insinuò un dubbio: ... e se Crisostomo non fosse stato all’oscuro delle mene dell’intraprendente Tisbe?
Poi portò lo sguardo sulla nave, vide Antonio, Pinin, Badialetti, il cappellano..., chissà quale destino li attendeva.
Allora, con un’alzata di spalle, cacciò dalla mente Pothamos coi ricordi ad essa legati e perdette lo sguardo nell’orizzonte, immergendosi in chissà quali più grigi pensieri.

Fuffo levò un lungo ululato nella notte.

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