RACCONTI DI GUERRA
Viaggiando a singhiozzo, la tradotta dai sedili di legno li aveva
portati a quella destinazione ignota.
Erano tutti richiamati, presentatisi appena sette giorni prima al
Deposito di Cavalleria di Caltanissetta da dove erano ripartiti un afoso
pomeriggio di quel lontano settembre 1940.
Solo sul treno avevano avuto modo di contarsi, loro, i
Cavalleggeri del 3° Squadrone del neo ricostituito Reggimento “Cavalleggeri di
Palermo”.
Avevano viaggiato per ore ed ore, i più, giovani contadini, nel volto
i segni dell’angoscia per un futuro incerto e sicuramente ostile; gli altri,
quelli più anziani, col pensiero alle famiglie lasciate, alla moglie ed ai
figli, forse anche senza mezzi di sostentamento.
Cecè non aveva mai smesso di parlare; poi aveva attaccato bottone
con Tonino, l’aiuto cuoco, avevano riso, scherzato e bevuto, finché non era
scoppiata una mezza rissa, subito sedata dal provvido intervento di Peppe
Alfano, il trombettiere.
Erano circa le 11 del mattino, quando, guardandosi attorno, seppero
di essere a Brancaleone, sulla costa ionica della Calabria. E gli uomini non
ebbero posa, presi a sistemarsi sotto la
guida dei sottufficiali e del tenente di destra, anch’essi richiamati, cui
forse tutto difettava tranne che il buon senso.
Il comandante di squadrone, il tenente Vittorio Mangano (1), era a
rapporto chissà dove.
La sera li colse quasi di sorpresa, con la gavetta ancora in mano
ed il sapore di scatoletta che cominciava a “ritornare”.
Sul mare che brontolava di risacca sulla vicina spiaggia, il
tramonto indorato s’era trasformato in crepuscolo brillante e qualche rara
stella già ammiccava alta nel cielo.
Inaspettato si levò lo squillo della tromba.
Piccolo di statura, rigido ed asciutto, Peppe Alfano si stagliava
nel riquadro della porta sul luccichio della notte incombente ed il silenzio
fuori ordinanza, dalle note chiare e prolungate, andò a toccare il cuore dei
soldati, giovani e vecchi e più di uno, con la ruvida mano, scacciò
furtivamente una lacrima repentina.
Ai primi raggi del sole, le dolci note della sveglia di cavalleria
distolsero quegli uomini dall’intimità
dei loro sogni.
Al fontanile c’era ressa.
- Alfano, vieni con me - ed il tenente, comandante di squadrone,
si allontanò seguito da un preoccupato trombettiere, ancora in canottiera ma
col suo fedele strumento a tracolla.
- Vede, signor tenente, non
la lascio mai, è l’unica cosa che posseggo, - cominciò il soldato, tanto per
dire qualcosa, mentre dentro si chiedeva con apprensione cosa avesse combinato
per essere convocato dal Comandante in persona.
- A Palermo io mi arrangio,
faccio il falegname, il muratore, l’uomo di fatica. Però la domenica no. La
domenica è bello perché mi vesto e giro per le strade, sa, tipo dietro San Domenico…
- lei c’è mai stato a Palermo? - …e suono per i “cristiani”.
- Suono la “qualunque” ed ho pure un pappagallino che “tira” i
bigliettini della fortuna.
Per la verità, io non so leggere e non so cosa c’è scritto, ma
certe volte, specialmente “i fimmini”, si vede che sono soddisfatte ed
allora mi danno di più.
- Certo lei queste cose non le può capire perché lei, con rispetto
parlando, si vede subito che è un “signorino”, e che ha studiato; ma noi
poveretti dobbiamo “campari”.
Parlava con quella dolce cantilena della Sicilia occidentale,
traducendo per diretta assonanza dal dialetto e scegliendo le parole perché fossero
acconce al rispetto che meritava il superiore.
L’ufficiale ascoltava in silenzio lo sproloquio del cavalleggero
che aveva chiamato per sondarne l’animo e capire chi fosse.
Nel cumulo di responsabilità che gli erano piovute sulle spalle, a
lui - richiamato fra richiamati - il pensiero che la vita di tanti uomini
sarebbe dipesa dal suo operato, lungi dall’inorgoglirlo, gli faceva sentire il
disperato bisogno d’un aiuto qualsiasi. Doveva,
intanto e con urgenza, individuare gli uomini che potevano coadiuvarlo nel
comando e sui quali fondare il tramite per il quale legare a sé i cavalleggeri.
E mentre quello parlava, ne metteva a fuoco i tratti: doveva avere
quasi trent’anni, qualcuno più di lui quindi, e dal sia pur rozzo suo modo di
fare, traspariva quella maturità di carattere frutto di un’atavica capacità di
adattamento atta a superare con successo le avverse fortune.
Quel piccoletto tutto nervi e ...lingua, aveva certamente lottato
per sopravvivere, come forse la più parte dei suoi uomini, ma la sua
intelligenza sembrava averlo messo al riparo dalle miserie in cui spesso si
sperdono gli afflitti che così smarriscono, insieme, dignità e rispetto di se
stessi.
Proprio quell’intelligenza e quel carattere lo avevano fatto
notare dall’ufficiale che, resosi subito conto di quale naturale ascendente
quello godesse fra i commilitoni, ora meditava di farne uno strumento nelle sue
mani per trasformare quell’improvvisata accozzaglia, in un reparto con un
minimo di coesione.
- Se mi permette una confidenza, con rispetto parlando, a me va
bene che mi paghino per suonare, ma se la gente sapesse quanto mi piace,
risparmierebbe i soldi, ...tanto io suonerei lo stesso.
Parlando avevano fatto il giro attorno alla casa ed adesso
dirigevano verso le antiche stalle, ora adattate a cucine, dove s’era formata una piccola e rumorosa fila di
soldati in fila per la colazione.
Il tenente già vestito e gli stivali lucidi, il cavalleggero
ancora discinto e gli scarponi slacciati.
- Dimmi, cosa è successo ieri sul treno?
Il piccoletto s’arrestò di colpo e, per una frazione di secondo
sembrò irrigidirsi come un gallinaccio che s’appresta al combattimento, quindi
il suo volto tornò a rasserenarsi, ma la voce suonava d’una impercettibile
inflessione più dura:
- Signor tenente, con rispetto parlando, che mi “pigliò” per spia?
Niente “successe”. Solo che non tutti tollerano il vino e non tutti hanno il
buon senso di capire che può essere pericoloso fare bere quelli che non lo sopportano.
Tutto qui.
All’Ufficiale non era sfuggito il senso della risposta ed in fondo
non s’era aspettato nulla di diverso, per cui assumendo un tono più severo:
- Va bene, Alfano, ho capito, chiuso l’incidente. Ora, visto che
tu sei il trombettiere, da oggi devi essere la mia ombra, voglio sempre averti
a portata di voce.
- Ed un’altra cosa... - aggiunse squadrandolo con malcelato disgusto
da capo a piedi - ...non ti fare più vedere da me in queste condizioni, se no ti
faccio conoscere io il “signorino”. Ora sparisci! vatti a lavare e vestire.
Allacciati le scarpe e soprattutto... fatti la barba.
Un sorriso rischiarò il viso del cavalleggero cui, evidentemente,
aggradava l’ordine e con quell’inoffensiva insolenza che gli veniva da
generazioni di “servizio”, assunse una rigida posizione d’”attenti”:
- Comandi, signor tenente,
posso allora chiederle subito un piacere? Mi chiami “Peppe” come tutti.
Con quell’Alfano, con rispetto
parlando, mi sembra ...un carabiniere.
E corse via prima che l’ufficiale potesse riprendersi; ma un’ora dopo, vestito di tutto
punto e rasato come un innamorato al primo appuntamento, già lo accompagnava
nella sua prima ricognizione: erano otto chilometri di costa da sorvegliare,
lungo i quali lo squadrone prese presto posizione in tutta una serie di
“fortini”, alcuni di recente costruzione, altri improvvisati o in via
d’apprestamento.
Ed il tempo prese a passare.
Alfano e la sua inseparabile tromba accompagnavano ormai il
tenente dovunque questi andasse: ispezionavano la costa, visitavano le cucine,
lo aspettavano fuori quando andava a
rapporto, e fra i due uomini s’era creata una sorta di complice confidenza
fondata sul rispetto dei reciproci ruoli.
Il cavalleggero, dal canto suo, conservava anche la stima dei
commilitoni, cosa assai rara per quei
soldati che “stanno vicino al sole”, ma la sua sagacia aveva avuto ragione
della loro istintiva diffidenza, mentre con carattere maturo e generoso aveva
sempre trovato il modo di mediare i bisogni della truppa con le necessità
imposte dalla guerra. Che, in fondo, era proprio ciò a cui pensava il
comandante di squadrone il giorno che,
con sicuro intuito, lo aveva avvicinato al fontanile.
Ormai la sera aveva preso a fare freddo e non ci si attardava più
all’aperto, per cui il piano terreno della casa di campagna dei principi Ruffo
di Calabria, in cui s’era accantonato lo squadrone, era diventato tutt’uno
dormitorio ed anche luogo di ritrovo,
dove la truppa attendeva ai propri chiassosi svaghi. Bastava, però, una nota di Peppe che subito tutti
ammutolissero per raccogliersi attorno a lui che improvvisava canzonette,
motivi popolari e pezzi classici, mischiati insieme con irrispettosa maestria.
C’erano voluti quasi due mesi
perché, lontani dalle proprie case, in questo angolo d’Italia che per
clima e colori ricordava la natia Sicilia, i cavalleggeri si adattassero ai
nuovi ritmi imposti dalla guerra. Quegli uomini che il caso aveva riunito sullo
stesso treno perché condividessero il medesimo destino, avevano alla fine
familiarizzato ed ognuno nell’espletamento del proprio compito, aveva trovato
la ragione più immediata del loro stare insieme.
Solo un’ombra sembrava gravare sullo squadrone nel quale Tonino
s’era rivelato un alcolizzato senza speranza, un poveretto che, nel corso d’una
vita di stenti, aveva creduto di trovare
conforto nel freddo fondo della
bottiglia. Quando ciò accadeva, egli perdeva il controllo delle sue azioni ed
insieme ogni dimensione umana.
Dall’episodio del treno, i commilitoni evitavano accuratamente la
sua compagnia e, dopo un paio d’incidenti, anche il tenente aveva dovuto
prendere atto che le cucine non erano il posto più adatto per quel poveretto
che, alla fine, era stato assegnato al rafforzamento delle fortificazioni.
L’idea era stata di Alfano che aveva così commentato quel
movimento:
- Voglio proprio vedere se riesce a scolarsi pure quella schifezza di cemento che ci
passano... .
Tra una guardia, un addestramento ed un’esercitazione
dall’allarme, con la primavera arrivò anche il giorno di San Giorgio e, forse
fidando su un’improbabile tregua mediata dal Santo a cui anche il nemico era
devoto, i Cavalleggeri ne organizzarono la commemorazione.
In ordinato schieramento, volti all’improvvisato altare posto fra
loro ed il mare, molti per la prima volta sentirono parlare del martire Patrono
della loro Arma. Ed il tenente, pur rifuggendo dalla facile retorica, non mancò
d’additarne l’esempio proprio in quei giorni in cui la Patria li chiamava a
grandi sacrifici. Cerimonia breve ed essenziale, conclusasi con “la carica”, il
beneaugurante brindisi di cavalleria scandito dai tradizionali segnali di
tromba eseguiti da un Alfano, più solenne che mai, ed in cui ciascuno brindò
nel gavettino.
E, come sovente accade, nell’allegria d’un aperitivo a digiuno,
qualcuno immemore delle esperienze passate, lasciò che Tonino “rinnovasse i
brindisi”, sicché presto ne nacque una
rissa.
In un cerchio di tesi cavalleggeri, l’ubriaco in preda al panico,
lo sguardo vitreo, la bava alla bocca ed
armato di coltello menava
fendenti in tutte le direzioni, lanciando urla disumane e frasi
sconnesse. Di fronte a lui Beppe, le
palme aperte protese, gli parlava con tono controllato e suadente:
- Tonino, finiscila, sono io Peppe, lascia il coltello, che niente
è successo...
Ed invece, per poco, non ne rimaneva sbudellato.
L’alcolizzato, immobilizzato dai compagni, quella stessa giornata
fu ricoverato all’ospedale militare di Catanzaro ed i compagni non lo rividero
mai più.
Ma da quel giorno nulla più sembrò andare per il verso giusto: un
paio d’avvistamenti avevano fatto salire la tensione ed erano aumentate
anche le ispezioni. Anche la posta cominciò a non giungere più con la
regolarità di prima, e gli stessi viveri avevano preso inspiegabilmente a
scarseggiare.
Gli uomini erano di cattivo umore.
Una notte un sommergibile inglese, con sospetta precisione,
affiorò proprio davanti all’accantonamento cannoneggiando il complesso delle
costruzioni. I cavalleggeri risposero al fuoco, ma mitragliatrici e moschetti
nulla poterono contro il nemico tenutosi abilmente fuori dalla portata delle
loro difese.
L’alba rischiarò lo spettacolo desolante delle macerie e dei
feriti.
C’era anche un morto.
La sua giovane figura non si sarebbe più stagliata nel sole a
scandirne il cammino, né dietro il San Domenico di Palermo passanti d’ogni età,
richiamati da una tromba argentina, avrebbero più sperato in una vita migliore
promessa dall’innocente becco d’un
pappagallino.
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Nota:
(1) Il tenente Vittorio Mangano, Medaglia d'Argento al Valor Militare con i Cavalleggeri di Lodi, è stato un grande amico dell'autore di questo racconto. In effetti l'episodio, come gli altri che seguiranno con l'intestazione "Racconti di guerra", gli è stato raccontato da lui e l'autore s'è limitato a dargli corpo con nomi di fantasia ed ampliandone l'ambientazione.
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Nota:
(1) Il tenente Vittorio Mangano, Medaglia d'Argento al Valor Militare con i Cavalleggeri di Lodi, è stato un grande amico dell'autore di questo racconto. In effetti l'episodio, come gli altri che seguiranno con l'intestazione "Racconti di guerra", gli è stato raccontato da lui e l'autore s'è limitato a dargli corpo con nomi di fantasia ed ampliandone l'ambientazione.
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