Sani era un sardo
piccolo, tarchiato, scuro di carnagione e con dei capelli neri ed irti da far
invidia ad un istrice.
Tutto in lui tendeva
al nero, salvo l'eterno e disarmante sorriso che mostrava in ogni circostanza,
sfoderando radi denti anch’essi un po' anneriti. Tendeva alla pinguedine e non
aveva certo quel portamento congenito nei frutti di antichi e sacri lombi, come
avrebbe voluto il suo capitano.
Anzi, diciamolo
francamente, Sani era sbracato, l'uniforme su di lui era sempre meno uniforme:
i bottoni (quando c'erano) avevano sicuramente litigato con le asole, il
cinturone con la vita e le scarpe, insieme, con il calzolaio e la spazzola. E,
poi, lui nella vita civile faceva il piastrellista, non già l'indossatore, e
questa mania dei superiori fatta di barbe rasate, di capelli corti e di scarpe
lustre era proprio una tortura inventata per rendergli la vita impossibile.
Quale sfortuna essere
finito in cavalleria, meglio l'avessero mandato nel genio..., ed invece, per
colmo di iella, era proprio capitato lì e, come non bastasse, col più
"fanatico" dei capitani.
Tutte le mattine,
prima del suo arrivo, ti passavano in rivista. Prima il maresciallo di
squadrone: "Sani, stai punito,
scarpe sporche"; poi il tenentino: Sani, stai punito, basco calzato male;
ed infine lui, il capitano: "tenente, prenda il nome, questo è uno
schifo!".
Così la naia passava:
esercitazione e consegna; addestramento formale e consegna; licenza e...ancora
consegna (rientrava con i capelli lunghi), ma lui ci sorrideva sopra e, non
già, perché fosse strafottente, bensì perché quello era il suo carattere e,
poi, fosse pure uscito dalla caserma dove sarebbe andato?
Ormai mancava solo un
mese dal congedo e quella mattina di mezzo maggio, come sempre le note della
sveglia tiravano giù dalla branda i cavalleggeri che ancora assonnati si
avviavano ai servizi igienici o rifacevano i "cubi"[i] .
Tutti, tranne uno:
Sani! Lui il cubo l'aveva già fatto, e per di più era sbarbato e vestito di
tutto punto, perfino gli anfibi luccicavano a specchio.
L'ufficiale di
servizio lo guardò perplesso, quindi scuotendo la testa, si allontanò
borbottando: "misteri della naia".
Tuttavia quella mattina
non doveva essere l'unico a rimanere
allibito, tant'è che il maresciallo di squadrone a momenti si strozzava,
ringoiando il "cazziatone" già pronto.
Il capitano, invece,
lui no! Lui non manifestò stupore in adunata davanti ad un Sani lustro ed
impettito, ma solo perché il tenente glielo aveva già detto, al Circolo, mentre
prendevano il caffé. Aveva solo bofonchiato:" ... gatta ci cova".
Sani, da quel giorno
era, comunque, primo in tutto, primo nell'addestramento - mai quell'MG[ii] era
stata più veloce in un'esercitazione di terzo ciclo[iii] - primo in adunata, primo a montar di servizio,
ma negli intervalli, tra una lezione e l'altra, tra un periodo e l'altro,
spariva dalla vista dei superiori.
Il capitano ripeteva
tra sé: "gatta ci cova", però lo guardava con rinnovato, altero
affetto: in fondo quello scavezzacollo gli era stato sempre simpatico e,
adesso, cominciava a mancargli il "personaggio", quasi che il terzo
squadrone non fosse più il terzo senza lo sbraco di Sani.
- Gatta ci cova!
- No, signor capitano, non è una gatta, è un
picchio, e non sta covando, è Sani che
se lo... cova".
A parlare era il
maresciallo di squadrone venuto a rapporto perché "nei suoi dieci anni di
vita militare, mai aveva visto uno schifo del genere al posto branda. Una
scatola di cartone piena di buchi con dentro un nido in piena regola, con tanto
di escrementi di volatile e qualche briciola, il tutto imboscato nell'armadietto di Sani, al ripiano inferiore, quello con
i buchi per far prendere aria alle scarpe".
Era successo che la
bestiola, come nella sua natura, s'era messa a battere col becco sul fondo
dell'armadietto ed il sottufficiale, che casualmente era nei paraggi, s'era presa
una strizza che levati. Poi, di fronte al risolino del piantone, aveva fatto
arrivare un terrorizzato Sani ingiungendogli di aprire.
L'uccellino era
volato fuori, andando a posarsi, incredibilmente, sul petto del cavalleggero
che lo aveva subito ficcato nel taschino della giacca mimetica.
- Le dico che è un picchio, con tanto di piume
e becco, e lui se
lo tiene nell'armadietto.
Il capitano lo
guardava tra l'incredulo ed il divertito (avrebbe voluto essere presente per
godersi la faccia del sottufficiale, ottimo collaboratore ma totalmente privo
del benché minimo senso dell'umorismo), quindi chiamò il furiere.
- Beh, è un po' che Sani ed il picchio sono
amici. Lo sanno tutti, anzi eravamo convinti che anche Lei lo sapesse.
"Cose dell’altro
mondo …" disse fra sé l'ufficiale nel congedarlo, quindi rivolto al
maresciallo:
- Siediti, Nando e
lasciami pensare. Per quanto cerchi nelle mie cognizioni, non riesco a trovare
un articolo del regolamento che vieti l'amicizia di un …picchio con un cavalleggero.
- Però
l'armadietto...
- Non vorrai dirmi
che quell'animale è stato lì tutto questo tempo senza che tu te ne accorgessi? No!
non è da te, anzi sono persuaso - aggiunse in tono conclusivo - che tu non hai
proprio visto niente.
Il sottufficiale uscì
dall'ufficio poco convinto, ma in fondo "contento lui...".
Nei giorni successivi
Sani aveva evitato accuratamente il capitano non capacitandosi come, ancora,
non gli fosse capitato niente, ma ora aveva un problema più grosso che
l’angosciava: si partiva per la sorveglianza dei seggi elettorali, come avrebbe
fatto a nascondere il picchio?
Alle sette del
mattino i camion erano già incolonnati e gli uomini dello squadrone passavano
l'ultima ispezione, quella del capitano.
A Sani, in prima
fila, mancava l'eterno sorriso sulle labbra, anzi, tutto bardato con zainetto e
fucile, sembrava guardare implorante il superiore.
Il capitano passò
oltre, ma al termine della riga chiese al tenente di destra:
- Cosa gli prende a
quello là ?
- Ha lasciato il
picchio in camerata, signor capitano, temeva che qualcuno glielo
trovasse, ed ora è ...disperato .
- Sani, maledetto
lavativo, possibile che tu debba trovare sempre il sistema di farmi perdere
tempo? Ti do due minuti per andare al cesso e tornare in adunata. Guai a te, se...
L'ufficiale non aveva
finito ancora la frase, che quello era già sparito nell'androne, facendo
ritorno di lì a poco, con il solito taschino della mimetica gonfio. E gonfi
aveva pure gli occhi di ...gratitudine.
Passarono i tre
giorni delle consultazioni, i cavalleggeri sparsi per tutta la valle. Al
capitano, la cui preoccupazione principale era quella che i suoi uomini si
dimostrassero all'altezza del compito, non passò neanche lontanamente per la
mente la strana faccenda dell’uccello.
E non sentì più
parlare del picchio, né lui si tenne al corrente.
Il giorno del congedo
- Sani lasciò le armi dieci giorni dopo gli altri per fatti di disciplina
anteriori a quelli raccontati - questi lo andò a ringraziare per il rude
affetto che gli aveva sempre, a modo suo, dimostrato.
Così apprese che il
picchio era morto, unica vittima nello squadrone di quell'ordine pubblico.
L’uccellino riposto per la notte nel cassetto d’una scrivania accantonata nel
corridoio della scuola ov’erano costituiti i seggi, era rimasto soffocato dalle
esalazioni dell’insetticida in polvere col quale era stata trattata giorni
prima.
Il giovane ne parlava,
tuttavia, con distacco quasi che il suo pensiero fosse già rivolto alla vita
che lo aspettava fuori da quel cancello.
A ricordare Sani ed
il suo picchio resta, ancor oggi, un orribile e policromo pavimento di mattoni
"da campionario" posato nell'ufficio del comandante del 3° squadrone
in quegli ultimi giorni in cui "scontava", da quel ragazzo scuro e
piccoletto che, più che negli uomini e nei compagni d'arme, aveva trovato
affetto in un uccello.
[i]
In camerata tutti i letti venivano rifatti ripiegando in due il materasso di
lana sul quale erano poste lenzuola e coperte, anch’esse piegate di misura,
sicché ne veniva fuori una sorta di squadrato parallelepipedo.
[ii]
Mitragliatrice in dotazione agli assaltatori.
[iii]
Ultimo periodo d’addestramento dei militari di leva.
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