giovedì 28 giugno 2012

Storia di un'amicizia

Sani era un sardo piccolo, tarchiato, scuro di carnagione e con dei capelli neri ed irti da far invidia ad un istrice.
Tutto in lui tendeva al nero, salvo l'eterno e disarmante sorriso che mostrava in ogni circostanza, sfoderando radi denti anch’essi un po' anneriti. Tendeva alla pinguedine e non aveva certo quel portamento congenito nei frutti di antichi e sacri lombi, come avrebbe voluto il suo capitano.
Anzi, diciamolo francamente, Sani era sbracato, l'uniforme su di lui era sempre meno uniforme: i bottoni (quando c'erano) avevano sicuramente litigato con le asole, il cinturone con la vita e le scarpe, insieme, con il calzolaio e la spazzola. E, poi, lui nella vita civile faceva il piastrellista, non già l'indossatore, e questa mania dei superiori fatta di barbe rasate, di capelli corti e di scarpe lustre era proprio una tortura inventata per rendergli la vita impossibile.
Quale sfortuna essere finito in cavalleria, meglio l'avessero mandato nel genio..., ed invece, per colmo di iella, era proprio capitato lì e, come non bastasse, col più "fanatico" dei capitani.

Tutte le mattine, prima del suo arrivo, ti passavano in rivista. Prima il maresciallo di squadrone:  "Sani, stai punito, scarpe sporche"; poi il tenentino: Sani, stai punito, basco calzato male; ed infine lui, il capitano: "tenente, prenda il nome, questo è uno schifo!".
Così la naia passava: esercitazione e consegna; addestramento formale e consegna; licenza e...ancora consegna (rientrava con i capelli lunghi), ma lui ci sorrideva sopra e, non già, perché fosse strafottente, bensì perché quello era il suo carattere e, poi, fosse pure uscito dalla caserma dove sarebbe andato?

Ormai mancava solo un mese dal congedo e quella mattina di mezzo maggio, come sempre le note della sveglia tiravano giù dalla branda i cavalleggeri che ancora assonnati si avviavano ai servizi igienici o rifacevano i "cubi"[i] .
Tutti, tranne uno: Sani! Lui il cubo l'aveva già fatto, e per di più era sbarbato e vestito di tutto punto, perfino gli anfibi luccicavano a specchio.
L'ufficiale di servizio lo guardò perplesso, quindi scuotendo la testa, si allontanò borbottando: "misteri della naia".
Tuttavia quella mattina non doveva essere l'unico a rimanere  allibito, tant'è che il maresciallo di squadrone a momenti si strozzava, ringoiando il "cazziatone" già pronto.
Il capitano, invece, lui no! Lui non manifestò stupore in adunata davanti ad un Sani lustro ed impettito, ma solo perché il tenente glielo aveva già detto, al Circolo, mentre prendevano il caffé. Aveva solo bofonchiato:" ... gatta ci cova".

Sani, da quel giorno era, comunque, primo in tutto, primo nell'addestramento - mai quell'MG[ii] era stata più veloce in un'esercitazione di terzo ciclo[iii] -  primo in adunata, primo a montar di servizio, ma negli intervalli, tra una lezione e l'altra, tra un periodo e l'altro, spariva dalla vista dei superiori.
Il capitano ripeteva tra sé: "gatta ci cova", però lo guardava con rinnovato, altero affetto: in fondo quello scavezzacollo gli era stato sempre simpatico e, adesso, cominciava a mancargli il "personaggio", quasi che il terzo squadrone non fosse più il terzo senza lo sbraco di Sani.
-    Gatta ci cova!
-    No, signor capitano, non è una gatta, è un picchio, e non sta covando, è  Sani che se lo... cova".
A parlare era il maresciallo di squadrone venuto a rapporto perché "nei suoi dieci anni di vita militare, mai aveva visto uno schifo del genere al posto branda. Una scatola di cartone piena di buchi con dentro un nido in piena regola, con tanto di escrementi di volatile e qualche briciola, il tutto imboscato nell'armadietto di Sani, al ripiano inferiore, quello con i buchi per far prendere aria alle scarpe".
Era successo che la bestiola, come nella sua natura, s'era messa a battere col becco sul fondo dell'armadietto ed il sottufficiale, che casualmente era nei paraggi, s'era presa una strizza che levati. Poi, di fronte al risolino del piantone, aveva fatto arrivare un terrorizzato Sani ingiungendogli di aprire.
L'uccellino era volato fuori, andando a posarsi, incredibilmente, sul petto del cavalleggero che lo aveva subito ficcato nel taschino della giacca mimetica.
-    Le dico che è un picchio, con tanto di piume e  becco, e lui  se  lo  tiene nell'armadietto.

Il capitano lo guardava tra l'incredulo ed il divertito (avrebbe voluto essere presente per godersi la faccia del sottufficiale, ottimo collaboratore ma totalmente privo del benché minimo senso dell'umorismo), quindi chiamò il furiere.
-    Beh, è un po' che Sani ed il picchio sono amici. Lo sanno tutti, anzi eravamo convinti che anche Lei lo sapesse.
"Cose dell’altro mondo …" disse fra sé l'ufficiale nel congedarlo, quindi rivolto al maresciallo:
- Siediti, Nando e lasciami pensare. Per quanto cerchi nelle mie cognizioni, non riesco a trovare un articolo del regolamento che vieti l'amicizia di un …picchio con un cavalleggero.
- Però l'armadietto...
- Non vorrai dirmi che quell'animale è stato lì tutto questo tempo senza che tu te ne accorgessi? No! non è da te, anzi sono persuaso - aggiunse in tono conclusivo - che tu non hai proprio visto niente.
Il sottufficiale uscì dall'ufficio poco convinto, ma in fondo "contento lui...".

Nei giorni successivi Sani aveva evitato accuratamente il capitano non capacitandosi come, ancora, non gli fosse capitato niente, ma ora aveva un problema più grosso che l’angosciava: si partiva per la sorveglianza dei seggi elettorali, come avrebbe fatto a nascondere il picchio?
Alle sette del mattino i camion erano già incolonnati e gli uomini dello squadrone passavano l'ultima ispezione, quella del capitano.
A Sani, in prima fila, mancava l'eterno sorriso sulle labbra, anzi, tutto bardato con zainetto e fucile, sembrava guardare implorante il superiore.
Il capitano passò oltre, ma al termine della riga chiese al tenente di destra:
- Cosa gli prende a quello là ?
- Ha lasciato il picchio in camerata, signor capitano, temeva che qualcuno glielo trovasse, ed ora è ...disperato .
- Sani, maledetto lavativo, possibile che tu debba trovare sempre il sistema di farmi perdere tempo? Ti do due minuti per andare al cesso e tornare in adunata. Guai a te, se...
L'ufficiale non aveva finito ancora la frase, che quello era già sparito nell'androne, facendo ritorno di lì a poco, con il solito taschino della mimetica gonfio. E gonfi aveva pure gli occhi di ...gratitudine.
Passarono i tre giorni delle consultazioni, i cavalleggeri sparsi per tutta la valle. Al capitano, la cui preoccupazione principale era quella che i suoi uomini si dimostrassero all'altezza del compito, non passò neanche lontanamente per la mente la strana faccenda dell’uccello.
E non sentì più parlare del picchio, né lui si tenne al corrente.

Il giorno del congedo - Sani lasciò le armi dieci giorni dopo gli altri per fatti di disciplina anteriori a quelli raccontati - questi lo andò a ringraziare per il rude affetto che gli aveva sempre, a modo suo, dimostrato.
Così apprese che il picchio era morto, unica vittima nello squadrone di quell'ordine pubblico. L’uccellino riposto per la notte nel cassetto d’una scrivania accantonata nel corridoio della scuola ov’erano costituiti i seggi, era rimasto soffocato dalle esalazioni dell’insetticida in polvere col quale era stata trattata giorni prima.
Il giovane ne parlava, tuttavia, con distacco quasi che il suo pensiero fosse già rivolto alla vita che lo aspettava fuori da quel cancello.

A ricordare Sani ed il suo picchio resta, ancor oggi, un orribile e policromo pavimento di mattoni "da campionario" posato nell'ufficio del comandante del 3° squadrone in quegli ultimi giorni in cui "scontava", da quel ragazzo scuro e piccoletto che, più che negli uomini e nei compagni d'arme, aveva trovato affetto in un uccello.


[i] In camerata tutti i letti venivano rifatti ripiegando in due il materasso di lana sul quale erano poste lenzuola e coperte, anch’esse piegate di misura, sicché ne veniva fuori una sorta di squadrato parallelepipedo.
[ii] Mitragliatrice in dotazione agli assaltatori.
[iii] Ultimo periodo d’addestramento dei militari di leva.

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