mercoledì 27 giugno 2012

Willycow


Non si può parlare di Roccomaria senza presentare l’indissolubile coprotagonista dell’avventura umana che ci accingiamo a conoscere.

Willycow era un giovane prestante di un metro e settantacinque circa, già campione di una qualche disciplina atletica in Accademia, ove s’era segnalato anche negli studi e per l’ottima educazione ricevuta nella famiglia borghese dalla quale proveniva.
La testa appariva un po’ piccola su quelle poderose spalle, con quel visetto magro dominato da un naso sottile ed affilato, ma di proporzioni più che generose.
Entusiasta della vita, generoso col mondo intero, inebriato di “Cavalleria” e della libertà che il suo stato di ufficiale gli permetteva, era di contro l’uomo più immaturo di carattere, irresponsabile ed esposto al plagio che mai fosse apparso sulla terra.
Il portamento atletico mascherava solo in parte una innata trasandatezza nel vestire l’uniforme, non disgiunta ad una scarsa propensione a familiarizzare con tutte quelle pratiche igieniche che lo facessero assomigliare più al cavaliere che non al cavallo, entrambi nobili, ma per natura profumati in modo diverso.

Assolutamente incapace d’amministrarsi, era sistematicamente al verde e ciò solo dopo due o tre giorni dallo stipendio. Cosa facesse dei soldi nessuno mai è riuscito ad appurarlo poiché non beveva e non giocava se non al Circolo, non si drogava e non andava a donne di malaffare, né - per quel che è dato di sapere - inviava soldi alla famiglia d’origine.
Tale incresciosa condizione lo portava a contrarre debiti che “motu proprio” tendeva a non onorare ed ad impelagarsi in situazioni e fatti che solo a lui potevano capitare.
Alla costante ricerca d’un modello da seguire, di un riferimento che gli desse sicurezza, s’attaccava a chiunque gli si mostrasse anche solo gentile, prendendone ad imitare materialmente il modo di parlare, gestire e vestire.

L’incontro con Roccomaria fu benefico e nefasto ad un tempo: la Calotta che era diventata la sua famiglia, infatti, aveva eretto un preventivo muro di protezione atto a tenerlo a riparo da tutta quella serie di disgrazie cui lo esponeva la sua debolezza di carattere. Conosciuto l’uomo, infatti, vuoi per il buon nome del Reggimento e della Calotta stessa, vuoi per proteggere l’amico, i colleghi si adoperavano in modo conforme alle necessità: pagavano i suoi debiti (dal suo stesso stipendio, prima ancora che quello lo riscuotesse), prevenivano le conseguenze di alcune sue “sortite” infelici e rimediavano alle cappellate che nonostante tutto riusciva a compiere.
Di contro la dominante personalità dello sregolato Capocalotta, col quale dopo un certo tempo era andato a condividere l’appartamento di via San Martino, aveva finito col  spegnere in lui ogni barlume d’intelligente autonomia.
Egli adesso parlava, gestiva, muoveva, imprecava, scriveva, fumava e respirava perfino come il suo collega. A lui faceva eco nei discorsi, il verso a tavola ed a casa, nei rapporti sociali così come quelli in servizio, con un’automaticità e precisione da impressionare chiunque l’avesse osservato.

Roccomaria, la cui intelligenza ormai sembrava più solo indirizzata nella dimensione dell’irreale, non poteva rappresentare un modello per nessuno e, men che mai, per il debole Willycow che così, al bivio della sua vita, inconsapevolmente s’avviò per quella strada senza ritorno ove il fantastico, l’effimero e la fuga dalle responsabilità erano le uniche cose che importassero.
Tale subalternanza rivelava i suoi limiti tutte le volte che interferiva o condizionava i seri rapporti di servizio, ma più spesso e simpaticamente pose le premesse a burle fantastiche, a macchiette memorabili ed a situazioni di allegra goliardia capaci di ravvivare la grama vita dei subalterni in guarnigione.

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