Non si può parlare di
Roccomaria senza presentare l’indissolubile coprotagonista dell’avventura umana
che ci accingiamo a conoscere.
Willycow era un
giovane prestante di un metro e settantacinque circa, già campione di una
qualche disciplina atletica in Accademia, ove s’era segnalato anche negli studi
e per l’ottima educazione ricevuta nella famiglia borghese dalla quale
proveniva.
La testa appariva un
po’ piccola su quelle poderose spalle, con quel visetto magro dominato da un
naso sottile ed affilato, ma di proporzioni più che generose.
Entusiasta della
vita, generoso col mondo intero, inebriato di “Cavalleria” e della libertà che
il suo stato di ufficiale gli permetteva, era di contro l’uomo più immaturo di
carattere, irresponsabile ed esposto al plagio che mai fosse apparso sulla
terra.
Il portamento
atletico mascherava solo in parte una innata trasandatezza nel vestire
l’uniforme, non disgiunta ad una scarsa propensione a familiarizzare con tutte
quelle pratiche igieniche che lo facessero assomigliare più al cavaliere che
non al cavallo, entrambi nobili, ma per natura profumati in modo diverso.
Assolutamente incapace d’amministrarsi, era sistematicamente al verde e ciò solo dopo due o tre giorni dallo stipendio. Cosa facesse dei soldi nessuno mai è riuscito ad appurarlo poiché non beveva e non giocava se non al Circolo, non si drogava e non andava a donne di malaffare, né - per quel che è dato di sapere - inviava soldi alla famiglia d’origine.
Tale incresciosa
condizione lo portava a contrarre debiti che “motu proprio” tendeva a non
onorare ed ad impelagarsi in situazioni e fatti che solo a lui potevano
capitare.
Alla costante ricerca
d’un modello da seguire, di un riferimento che gli desse sicurezza, s’attaccava
a chiunque gli si mostrasse anche solo gentile, prendendone ad imitare
materialmente il modo di parlare, gestire e vestire.
L’incontro con Roccomaria fu benefico e nefasto ad un tempo:
Di contro la
dominante personalità dello sregolato Capocalotta, col quale dopo un certo
tempo era andato a condividere l’appartamento di via San Martino, aveva finito
col spegnere in lui ogni barlume
d’intelligente autonomia.
Egli adesso parlava,
gestiva, muoveva, imprecava, scriveva, fumava e respirava perfino come il suo
collega. A lui faceva eco nei discorsi, il verso a tavola ed a casa, nei
rapporti sociali così come quelli in servizio, con un’automaticità e precisione
da impressionare chiunque l’avesse osservato.
Roccomaria, la cui intelligenza ormai sembrava più solo indirizzata nella dimensione dell’irreale, non poteva rappresentare un modello per nessuno e, men che mai, per il debole Willycow che così, al bivio della sua vita, inconsapevolmente s’avviò per quella strada senza ritorno ove il fantastico, l’effimero e la fuga dalle responsabilità erano le uniche cose che importassero.
Tale subalternanza rivelava i suoi limiti tutte le
volte che interferiva o condizionava i seri rapporti di servizio, ma più spesso
e simpaticamente pose le premesse a burle fantastiche, a macchiette memorabili
ed a situazioni di allegra goliardia capaci di ravvivare la grama vita dei
subalterni in guarnigione.
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